Lodovico Cardellino
(Independent scholar, Aosta, Italy)
28 July 2007


La gloria è “lo fondo de la … grazia” (Par. 15.35-36)

“ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso
tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo
de la mia grazia e del mio paradiso.”
(Par. 15.34-36)

Petrocchi propone “gloria” al posto di “grazia”, in quanto lectio difficilior di cui “l’esame dei testi consente pienamente l’adozione”, pur essendo documentata in un numero molto minore di manoscritti, e non dai più autorevoli. Osserva che “gloria è nel senso di ‘beatitudine’, ‘felicità dei beati’, come a Par. 19.14; 25.68”.

Molti hanno adottato la sua proposta senza ulteriori commenti; Aglianò[1] la considera un “felice restauro”; altri hanno preferito conservare “grazia”, o senza darne motivi, o in quanto attestata da un maggior numero di codici; Sapegno inoltre “in quanto elimina una ripetizione di concetti (e non può essere considerata lectio facilior)”. Chiavacci Leonardi aggiunge che “la grazia è proprio ciò che giunge a Dante per mezzo di Beatrice” e soprattutto che “il termine gloria non può essere riferito nella teologia cristiana (e dantesca) ad un uomo mortale, ma soltanto a coloro che già godono, accomunati a Dio stesso, della visione beatifica”.

Solo quest’ultimo argomento può essere convincente, a condizione di emendarlo e precisarlo e inoltre di spiegare la comparsa della lezione preferita da Petrocchi. Ma prima mi sembra doveroso aggiungere qualche considerazione sui pochi altri motivi addotti pro e contro l’una e l’altra tesi. Intanto non mi pare che debba essere vincolante la scelta della lectio difficilior, perché un copista può scegliere lezioni più ricercate, o considerare più facile una lezione che a noi pare più difficile, così come ora ad alcuni quella proposta da Petrocchi non è parsa più difficile. Ancor meno influente è il numero di codici che attestano ogni lezione.

La grazia è riconosciuta in Dante da molti purganti in purgatorio; Dante dice a Marco Lombardo che essa gli è data da Dio per consentirgli il viaggio (Purg. 16.40) ma poi a Guido Guinizzelli che “donna è di sopra che m’acquista grazia” (Purg. 26.59). Tuttavia vedremo che questo non è un motivo per concludere che Dante guardandola possa pensare di toccare lo fondo della sua grazia e non della sua gloria.

Non mi pare da escludere, nella Commedia, la “ripetizione di concetti”; ma vedremo che qui hanno senso simile “gloria” e “grazia”, mentre può essere nettamente diverso proprio “paradiso”. In nessuna delle occorrenze precedenti nel Paradiso “gloria” ha il significato di “beatitudine”; è vero che può averlo, dopo, nei due casi citati da Petrocchi, ma in essi, come in questo, solo in quanto il lumen gloriae comporta la visione di Dio e quindi la beatitudine. Da tale gloria inizia il Paradiso di Dante.

La gloria non è data, come afferma Chiavacci Leonardi, a “coloro che già godono (…) della visione beatifica”, bensì consente di goderne: ad videndum Dei essentiam requiritur aliqua similitudo ex parte visivae potentiae, scilicet lumen gloria [2]. La gloria fa vedere Dio e Dante lo vedrà solo in Empireo al termine del suo viaggio; ma, per lui come per chiunque, è data dalla pienezza delle grazia: gratia non requiritur ad videndum Deum per essentiam, quasi immediata dispositio ad visionem; sed quia per gratiam homo meretur lumen gloriae sibi dari, per quod Deum in essentia videat (…) nec gratia gratum faciens nec gratia gratis data sufficit ad videndum Deum per essentiam, nisi sit gratia consummata, quae est lumen gloriae [3]. (…) facultas (…) perveniendi ad gloriam, quae est ultimus effectus positivus gratiae.[4]

Già Johannis de Serravalle spiegava “ire ad fundum mee gratie, idest videre totam meam gratiam, et mei Paradisi, idest putavi me tunc habere vitam eternam et summum bonum” e Landino spiega tutto il verso come “della mia gloria”; così pure Vellutello, poi Brunone Bianchi [5]. Così si supera l’obiezione di Petrocchi, secondo cui “gloria, sebbene poco attestata, difficilmente si può ritenere prodotto d’arbitrio”; infatti facilmente la si può ritenere non “prodotto d’arbitrio”, bensì chiosa subentrata al testo come spiegazione a “lo fondo / de la mia grazia”, che è appunto la gloria.

La grazia di cui Dante crede di toccare il fondo guardando negli occhi di Beatrice ripete la superinfusa gratia Dei detta da Cacciaguida e conferma che superinfusa è desuper missa, secondo l’interpretazione tradizionale, e non “sovrabbondante” come si tende a interpretare oggi: infatti ora Dante crede di toccarne il fondo (e se ne stupisce), e subito sente il beato dire cose che lui non intende.


[1] Sebastiano AGLIANÒ, “gloria”, in Enciclopedia Dantesca III 240-242.

[2] Sancti Thomae de Aquino Summa Theologiae I q. 12 a. 5 ad tertium

[3] Sancti Thomae Quaestiones disputatae de veritate, a. 3 ad sextum e ad decimum.

[4] Sancti Thomae Summa Theologiae III q. 70 a. 4 co.

[5] Riportati da Dartmouth Dante Project; cf anche Dante ALIGHIERI, La Divina Commedia (a cura di Giuseppe CAMPI) (Torino 1915)