Nicola Fosca
(Independent Scholar)
17 January 2012


Beatitudine terrena e Paradiso Terrestre

Nell’ultimo capitolo della Monarchia Dante afferma che la beatitudine della vita terrena è conseguibile operando secondo le virtù acquisite, morali ed intellettuali, mentre la beatitudine celeste, il secondo dei “duo ultima” per l’uomo, implica il possesso delle virtù teologali: alla prima conduce l’Imperatore, che si serve all’uopo dei “phylosophica documenta”, alla seconda il Sommo Pontefice, sulla base dei “documenta spiritualia”. Come abbiamo sottolineato[1], questa teoria presuppone la decisiva funzione dell’Impero, il quale è per Dante strumento della grazia, è, come la Chiesa, “remedium contra infirmitatem peccati” (Mon. III.iv.14). L’Impero, tenendo a freno con la legge la “voluntas corrupta” dei sudditi, fa sì che individui dotati soltanto di virtù acquisite portino a compimento le loro possibilità naturali: essi, malgrado i vulnera conseguenti al peccato originale e malgrado siano nella condizione peccaminosa di aversio a Deo (in quanto non dotati di virtù teologali), sono in grado di evitare la conversio ad bonum commutabile, non violando così la legge etica naturale. Tale concezione, in quanto contempla la possibilità, per chi non è in stato di grazia, di evitare il peccato (nel senso di non violare la misura della ragione), risulta decisamente eterodossa: “Antequam hominis ratio, in qua est peccatum mortale, reparetur per gratiam iustificantem, potest singula peccata mortalia vitare, et secundum aliquod tempus: quia non est necesse quod continuo peccet in actu. Sed quod diu maneat absque peccato mortali, esse non potest”[2].

Ora, nella Monarchia leggiamo anche che la felicità terrena, che “in operatione proprie virtutis consistit”, “per paradisum terrestrem figuratur” (III.xvi.7). Nel poema il pellegrino, guidato da Virgilio, giunge all’Eden, per cui la stragrande maggioranza della critica è indotta a ritenere che l’Eroe abbia potuto tanto (ponendo l’“appetitus sensitivus” sotto il controllo razionale) grazie alle sole capacità umane. Così ad esempio U. Bosco: “…il Paradiso terrestre è la sede della felicità che si può godere sulla terra e si può raggiungere con le sole forze umane, come ci dice Dante stesso (beatitudinem ... huius vite ... per terrestrem paradisum figuratur)”. Questa impostazione ha dominato i commentari dell’ultimo secolo: un’influenza decisiva è stata esercitata da E.G. Parodi, a parere del quale “fino ad esso [l'arrivo all'Eden] si perfeziona l'uomo, poi si perfezionerà il cristiano”[3]. Chiarissima l’esposizione di F. Mazzoni, per il quale i “due fini” sono conseguiti, per disegno provvidenziale, “dapprima nell’ordine della Natura, dietro la guida di Virgilio (Inferno e Purgatorio), e poi in quello della Grazia, con la guida paradisiaca di Beatrice”[4]. Ora, un simile approccio va incontro ad una gravissima difficoltà: infatti il ripristino del libero arbitrio di un peccatore (quale Dante, in rappresentanza dell’umanità sviata) esige che egli acceda alla condizione di natura reparata, condizione che è effetto della presenza della grazia santificante abituale, cioè della giustificazione: “In statu naturae corruptae indiget homo gratia habituali sananti naturam”[5]. Per Ch. S. Singleton, “to attain to justice with Virgil must mean to come to a justice which is discernible by the natural light of reason and without benefit of the light of sanctifying grace”[6]; ed è per questo che Singleton colloca l’evento della giustificazione dopo l’arrivo dell’Eroe nel Giardino, in coincidenza con la sua esperienza dei fiumi edenici. Sennonché, a parte il fatto che il ripristino del libero arbitrio, in un peccatore, è impossibile senza l’infusione delle virtù teologali, è sufficiente considerare che la cancellazione dei vizi non può assolutamente avere luogo se l’individuo non è in stato di grazia: l’espiazione purgatoriale presuppone la giustificazione (che dunque precede l’iter espiatorio[7]). E.H. Kantorowicz, per il quale con l’ingresso nell’Eden la maledizione scesa sull’umanità, dopo la colpa d’origine, è vinta “by the forces of intellect and supreme reason alone, forces symbolized by the pagan Vergil”, deve supporre che le sette ‘P’ rappresentino semplicemente “moral vices not spiritual sins”[8]; però le reliquiae peccati di cui ci si purga nelle sette cornici sono – come riconosce usualmente la critica – esattamente i vizi capitali nella sistemazione gregoriano-tomistica. E la cancellazione di tali vizi esige non soltanto la presenza delle virtù infuse (teologali e cardinali), ma addirittura quella dei doni dello Spirito Santo, i quali perfezionano il possesso delle virtù infuse; come afferma san Bonaventura, “ista vitia expelluntur per septem dona”[9]. Fra i pochi dantisti moderni che hanno mostrato esplicita consapevolezza di tali difficoltà citiamo L. Pietrobono: “... nel poema né la ragione per se stessa è sufficiente a menare alla felicità di questa vita, que in operatione proprie virtutis consistit et per terrestrem paradisum figuratur; né alla beatitudine della vita eterna ... Si richiede la grazia”[10].

Entrare quindi nel paradiso terrestre (ed in seguito pervenire all’innocenza) è possibile solo dopo essere stato giustificato: ma siccome la giustificazione implica il possesso delle virtù infuse, perché nella Monarchia leggiamo che l’Eden raffigura la beatitudine ‘naturale’, che comporta il possesso delle sole virtù acquisite? Pietrobono, nel segnalare il problema, deve coerentemente concludere che “Dante nella Commedia non professa la stessa dottrina”. Ma tale conclusione è obbligata? Dobbiamo rassegnarci (anche in questo caso) alla presenza di una contraddizione così eclatante?

A noi sembra che una via d’uscita dall’impasse ci sia, se si riflette sul fatto che l’Eden non è più, dopo la Caduta, sede della specie umana e che è transitoriamente frequentato solo da anime elette che, prive di corpo, stanno per ascendere al Cielo (l’esperienza del vivo Dante è ovviamente eccezionale): la dimensione del Paradiso Terrestre, dopo il primo peccato, è di conseguenza ultraterrena, e non coinvolge l’elemento tipico della vita terrena, la corporeità. Infatti le virtù cardinali non riguardano la vita futura, o almeno non nella veste naturale, “materiale” tipica della vita terrena[11].

Stando così le cose, si può supporre, considerato anche che il termine figura, strettamente inteso, implica uno sfasamento temporale fra gli elementi della correlazione, che l’accenno di Dante al Giardino si riferisca al periodo precedente la Caduta: in quel (breve) periodo i protoparenti erano caratterizzati dalla pienezza delle capacità naturali (per quanto sorrette dalla soggezione della ragione a Dio), pienezza poi persa in seguito al peccato originale, che causò la corruzione della natura umana, divenuta da quel momento assai prona agli allettamenti mondani. Poiché è impossibile per la sola ragione, senza l’ausilio divino, resistere a tali allettamenti, è inevitabile peccare mortalmente, essendo essa dominata da “amore disordinato”; ma per l’Alighieri tale ausilio può prendere l’aspetto dello Stato, per cui anche l’uomo dalla natura lapsa (macchiato dalla colpa d’origine) può, una volta soggetto alla legge giusta, evitare di diventare succube dei beni corruttibili. In tal modo anche chi non è giustificato può realizzare le proprie potenzialità naturali: la soggezione della ragione a Dio, che in Adamo era la condizione del controllo delle facoltà ‘inferiori’ dello spirito, è sostituita dalla soggezione del cittadino (del civis Romanus) allo Stato-Impero, instrumentum Dei (come il suo cantore Virgilio) e dispensatore della grazia nel mondo. Un peccatore, ‘convertito’ non a Dio ma al bonum commutabile, non può più compiere quanto la sua natura gli consentirebbe di fare, nel senso che, se prima della Caduta la grazia si limitava a dare continuità alle azioni naturali dell’uomo, dopo la Caduta è richiesto un intervento straordinario (misericordioso) di Dio: solo in tal maniera è possibile recuperare il controllo razionale sulle passioni. Si legga l’Aquinate, che pure non ritiene (come ritiene Bonaventura, ad esempio) che la grazia sia stata infusa in Adamo in un secondo momento: “In statu naturae integrae, quantum ad sufficientiam operativae virtutis, poterat homo per sua naturalia velle et operari bonum suae naturae proportionatum, quale est bonum virtutis acquisitae: non autem bonum superexcedens, quale est bonum virtutis infusae. Sed in statu naturae corruptae etiam deficit homo ad hoc quod secundum suam naturam potest, ut non possit totum huiusmodi bonum implere per sua naturalia”[12]. In altre parole, l’integrità naturale proveniva de facto, in Adamo, dalla grazia, però essa restava nell’ambito dell’ordine naturale, per cui non costituiva di per sé l’uomo “figlio adottivo di Dio” né lo rendeva partecipe della natura divina. Analogamente, per l’Alighieri, è la grazia, di cui l’Impero è lo strumento operativo, ad impedire la conversio ad bonum commutabile, pur in condizione di aversio a Deo.

Possiamo così dire che, come il primo uomo potè fare affidamento sulla propria ‘dotazione’ naturale, così può fare, anche se con diverse modalità, il civis Romanus. Ciò consente di pervenire alla beatitudine terrena: infatti Adamo poté condurre una “vita beata” proprio “inquantum habebat integritatem et perfectionem quandam naturalem”[13].

 


[1] Ancora sul “quodammodo” …., in EBDSA, May 2005.

[2] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae I-II, q. 109, a. 8.

[3] La D.C., poema della libertà dell'individuo ..., in O. Res [a cura di], Dante, Gorizia, Paternolli, 1921, p. 32.

[4] Introduzione a Dante, Monarchia, Epistole politiche, Torino, ERI, 1966, p. XCII.

[5] Summa Theologiae I-II, q. 109, a. 8

[6] Journey to Beatrice, Harvard UP, 1958, p. 257.

[7] Vedasi il nostro commento (DDP, 2003) a Inf. XXXIV.91-93.

[8] The King’s Two Bodies, Princeton UP, 1957, p. 488-89.

[9] De donis Spiritus Sancti, 2.3.

[10] Nuovi saggi danteschi, Torino, SEI, s.d., pp. 102-103.

[11] Agostino, De Trinitate 14.9; Summa Theologiae I-II, q. 67, a. 1.

[12] Summa Theologiae I-II, q. 109, a. 2.

[13] Ivi, I, q. 94, a. 1.