Lino Pertile
(Harvard University)
12 June 2007


Dante, Ulisse e l’altro viaggio (Inf. I 91)

La svolta narrativa da cui dipende tutto il poema ha luogo nel primo canto dell’Inferno, quando a Dante che  implora Virgilio di salvarlo dalla lupa, questi risponde: «A te convien tenere altro vïaggio» (I 91). Per salvarsi, Dante non deve fare la cosa ovvia, cioè, superare la lupa e salire sulla cima del colle che gli sta dinanzi, ma avventurarsi sotto terra, in quello che poco più avanti chiamerà «l’alto passo» (II 12), in altre parole attraversare il regno dei morti, perdersi per ritrovarsi,  paradossalmente morire per vivere. I commentatori si soffermano volentieri sul significato allegorico della frase di Virgilio, ma poco o niente dicono sulla sua formulazione letterale: «A te convien tenere altro vïaggio».

Giacomo Poletto (1894), seguito poi da altri, rinvia a Aen. IX 378, quove tenetis iter?; cita anche un passo di Gregorio Magno, che però più risponde al senso che non alla lettera del discorso di Virgilio:  Per aliam viam ad regionem nostram regredimur: quoniam qui a paradisi gaudiis per delectamenta discessimus, ad haec per lamenta revocamur.[1]

Più pertinente il verso di un sonetto di Guittone d’Arezzo, Or pensa di tener altro vïaggio, già segnalato da Tommaso Casini (1892). Anzi, Lino Leonardi, ultimo editore di Guittone, sembra non aver dubbi che proprio da questo verso dipende quello dantesco.[2] Ma si notino due particolari che lo stesso Leonardi segnala: primo, la clausola «tenere altro vïaggio» è «probabilmente formulare per questa situazione» (p. 143) e ha numerosi precedenti (per es., Folquet de Marselha e vari casi in Gaucelm Faidit); secondo, il «viaggio» di Guittone, come quello dei suoi predecessori provenzali, è metaforico, e significa ‘metodo’, ‘sistema’; cioè, la donna che parla nel sonetto non consiglia a Guittone a fare un altro viaggio, ma a provare a conquistarla ‘con sistemi diversi’.

Di «altro viaggio» si parla invece letteralmente in una anonima traduzione toscana, datata primo Trecento, della Navigatio Sancti Brendani.  Nel passo che ci riguarda San Brendano e compagni approdano in un’isola fatta di una sola montagna altissima, e qui incontrano San Paolo che vi vive da eremita. San Paolo, raccontata a San Brendano la storia delle sue peripezie, conclude: «Se vi piace di cercare questa isola cercatela, se non, vi partite, ché voi avete a ffare altro viaggio e tosto compierete lo [v]ostro desiderio cioè per quello che voi siete fuori del vostro munistero. [3]  Dopodiché San Brendano, ripreso il mare, giunge alla terra promessa dei santi e finalmente al paradiso terrestre.

In una situazione in parte analoga la frase ricorre anche nel Roman de Perceval. Qui, avendo appresa la morte di sua madre, Perceval dichiara di non aver più motivo di ritornare a casa, dove sta andando; ora che sua madre è morta e sepolta, dovrà prendere un’altra strada:

Et des que ele est mise en terre,
Que iroie jou avant querre?
Kar por rien nule n’i aloie
Fors por li que veoir voloie;
Autre voie m’estuet tenir. [4]

In un recente articolo Karlheinz Stierle ha studiato l’autre voie del Perceval mettendola in rapporto non solo con l’«altro viaggio» di Inf. I 91, ma anche con «l’alto passo» di Inf. II 12: è infatti con questo stilema che Dante comunica implicitamente a Virgilio la sua ansia nei confronti del viaggio che l’attende  («Poeta che mi guidi, / guarda la mia virtù s’ell’è possente, / prima ch’a l’alto passo tu mi fidi »); ma è anche con lo stesso stilema, come fa notare lo Stierle, che  a Inf. XXVI  132 Ulisse descrive il viaggio che lo porterà alla sua tragica fine («Cinque volte  racceso e tante casso / lo lume era di sotto da la luna, / poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo»).[5] Giustamente quindi il collega tedesco propone di leggere nell’«altro viaggio» che Virgilio propone a Dante-personaggio, la risposta implicita di Dante sia all’erranza di Perceval che alle peregrinazioni di Ulisse.

Orbene, il minimo che si può dire è che l’«altro vïaggio» dantesco ha precedenti che in Guittone, nel Perceval e nella Navigatio risultano piuttosto calzanti, se non perfetti.[6] Noi non sapremo mai, in assenza di prove concrete, se Dante conoscesse veramente questi testi. È probabile che avesse letto il sonetto di Guittone, ma sulle altre opere sarebbe azzardato esprimersi.

Certo, la presenza della stessa frase, o di una frase analoga in contesti, tradizioni e lingue diverse, dal francese al provenzale al toscano, fa pensare a una fonte comune da cui direttamente o indirettamente discendano per diversi canali le varie attestazioni romanze. Ora un tale intertesto esiste ed è così eclatante e pertinente che stupisce che, per quanto mi risulta, non sia mai stato segnalato prima d’ora.  Nel X libro dell’Odissea Ulisse, trascorso un anno intero nei piaceri dell’isola di Circe, chiede alla maga di lasciarlo partire per Itaca insieme ai suoi compagni. E la maga risponde, nella traduzione di Ippolito Pindemonte:

«O di Laerte sovrumana prole,
[...] ritenervi a forza
io più oltre non vo’. Ma un’altra via
correre in prima è d’uopo: è d’uopo i foschi
di Pluto e di Prosèrpina soggiorni
vedere in prima, e interrogar lo spirto
del Teban vate, che, degli occhi cieco,
puro conserva della mente il lume;
di Tiresia, cui sol die’ Proserpína
tutto portar tra i morti il senno antico.» (487-495 del testo orig.)

’all’’állen chrè prôton ‘odòn telésai, risponde Circe a Ulisse, cioè ‘ma prima un altro viaggio convien che tu compi’. Tre fatti vanno evidenziati. Primo, fatta la debita traduzione, la frase dell’Odissea è letteralmente uguale a quella dell’Inferno; secondo,  il viaggio che Circe e Virgilio propongono è lo stesso –  un viaggio agli inferi; terzo, mentre nella Navigatio e nel Perceval la prospettiva del nuovo viaggio non turba affatto i due viatores,  l’Ulisse omerico, come Dante, si sente dapprima spezzare il cuore al consiglio di Circe, e solo dopo che la maga l’ha rassicurato si rassegna a intraprendere il viaggio nel regno dei morti. In breve, Inf. I 91 è una citazione perfetta di Odissea X 490.

Ma c’è dell’altro. Il discorso dell’Ulisse dantesco nel XXVI dell’Inferno parte esattamente dallo stesso verso 91 in cui,  nel I canto, Virgilio propone a Dante l’«altro viaggio», e riprende la narrazione proprio da dove, nell’Odissea, Circe dice a Ulisse che, per tornare a casa, deve prima fare un altro viaggio.  In effetti, quando si ‘diparte’ «da Circe ... là presso a Gaeta» (92) l’ Ulisse di Dante non ritorna a Itaca, ma intraprende un «altro viaggio», che lo mette «per l’alto mare aperto» (100); entra in un «alto passo» (132) che lo porta alla montagna del purgatorio e, in definitiva, agli inferi.[7] In una tale riscrittura quello di Circe non è più un consiglio ma una profezia,  una profezia che potrebbe addirittura essere alla base dell’invenzione dantesca di Ulisse!

Ma Dante se ne rendeva conto? Si sa che non conosceva di prima mano i poemi omerici; forse ne conosceva almeno qualche frammento in traduzione latina, compreso il passo qui in questione? Possibile ma non probabile. Le mie ricerche, piuttosto sistematiche, non hanno reperito un solo testo latino, classico o medievale,  in cui compaia la frase di Circe che qui ci occupa. [8]

Nient’altro che una straordinaria coincidenza, dunque? Io preferisco immaginare (ma concedo che potrebbe essere mia pura fantasia) che, fin dall’inizio del poema dantesco, l’ombra di Ulisse[9] sia presente e operante nella mente del poeta, e che Dante scelga di non nominare l’eroe greco, al contrario di Enea e Paolo, perché già sa che l’altro viaggio di Ulisse è un viaggio da cui non si ritorna più.


[1] Homiliae in evangelia, I x 7. È il commento allegorico a Matteo 2.12 con riferimento al ritorno dei Magi da Betlemme «per aliam viam in regionem suam», un passo citatissimo nel medioevo.

[2] Guittone d’Arezzo, Canzoniere,  a c. di L. Leonardi, Torino, Einaudi, 1994, p. 144.

[3] Anonimo, Navigatio Sancti Brendani. La navigazione di San Brandano, a c. di M. A. Grignani, Milano, Bompiani, 1975, p. 201. Nessun’altra versione della Navigatio ha la frase «altro viaggio»;  la veneta, offerta nello stesso volume, ha «ché vui avé a far vostri viazi», p. 200; quella latina «quia adhuc restat iter vestrum per quadraginta dies» (ed. C. Selmer, Dublin, Four Courts Press, 1989, p. 76).

[4] Chrétien de Troyes, Le Roman de Perceval ou Le Conte du Graal, a c. di K. Busby, Tübingen, Max Niemeyer, 1993, vv. 3621-3625.

[5] «A te convien tenere altro vïaggio»: Dantes Commedia und Chrétiens Contes del Graal”, Romanistische Zeitschrift  für Literaturgeschichte, 25, 2001, pp. 39-64 (partic. pp. 43-45).

[6] Non pertinente, nonostante il titolo, Flavia Coassin, “«A te convien tenere altro viaggio». Il problema della ‘auctoritas’ e il genere della Commedia,  Quaderni d’Italianistica, 17 (1996), pp. 5-31.

[7] Cfr. G. Gorni, “Circe nel canto di Ulisse (Inferno XXVI)”, Letteratura Italiana Antica, VII (2006: Studi in memoria di Mirella Moxedano Lanza), pp. 223-35.

[8] La versione latina dell’Odissea dell’umanista Raffaele da Volterra (1451-1522) traduce Od. X 490 con «aliud namque iter te facere opus»: Odissea Homeri per Raphaelem Volaterranum in Latinum conversa, Romae per Iacobum Mazochium 1510.

[9] È il titolo del bel libro di Piero Boitani: Bologna, il Mulino, 1992.