Antonio Soro
(Independent Scholar)
26 May 2012


«O Virgilio, Virgilio, chi è questa?» (Pg XIX, 28)

La «serena» che seduce Dante svela una componente biografica che riporta a un traviamento di giovinezza, così come il poeta riferisce in Vn XXXV, 2 e passim. L’amor carnale, riflesso nella «femmina balba» fronteggiata da quella «onesta», disvia il pellegrino allo stesso modo in cui la «donna gentile», col suo fascino passionale, distolse Dante dall’amore sublime per Beatrice. E, tuttavia, ci si potrebbe chiedere se l’elemento figurale presente nel canto non possieda un suo schema allegorico di ispirazione biblica. Ricordiamo che il topos della «puttana» è presente in Pg XXXII, 148 ssg., come rappresentazione della meretrice Babilonia.

In Pg XIX il sogno del poeta comincia «quando i geomanti lor Maggior Fortuna| veggiono in oriente, innanzi a l’alba, | surger per via che poco le sta bruna» (4-6). «Geomantia» scriveva Bernardino Daniello «è una sorte di divinatione, essercitata spetialmente da' Caldei...». Il popolo Caldeo riveste un ruolo escatologico fondamentale nella Bibbia; la stessa Babilonia viene chiamata «Chaldea» (Ier 50, 10 e passim).

Dante sogna venirgli incontro «...una femmina balba, | ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta» (7-8): le deformità della bocca, degli occhi e delle gambe rappresentano le brutture dell’anima sottomessa ai vizi della lussuria, dell’avarizia e della gola, come spiega Benvenuto. Ai vv. 10-15, «questa orrida realtà si anima e si trasfigura per il potere fantastico dell'uomo, che soggettivamente attribuisce al male qualcosa di magico e di seducente, e finisce per riversare sulla figura od oggetto idolatrato un potere fascinante di passione» (G. Fallani).

Dante cade vittima dell’incantamento. Sempre ai vv. 10-15 la fantasia del poeta fa mutare la figura dell’ammaliatrice, «dandole una parlata sciolta, raddrizzandole le membra, e conferendo al volto di lei il colore che l’amore ama trovare in una donna».[1] Con un canto dolcissimo ella si presenta: «...io son dolce serena, | che ’ marinari in mezzo al mar dismago; | tanto son di piacere a sentir piena» (19). Fu lei, aggiunge ai vv. 22-24, a sviare Ulisse. Tuttavia, quando ancora non ha terminato, appare una misteriosa donna «santa e presta», «per far colei confusa» (27). La donna celeste si rivolge alla guida, per allertarla: «O Virgilio, Virgilio, chi è questa»? L’interrogativo sollecita indirettamente una risposta del lettore. Come scrive Hollander, «i tentativi di glossa alla “femmina balba” hanno portato i lettori a snidare fonti decisamente oscure […]. Il problema che hanno tutte queste fonti è che non ci sono prove che indichino che Dante le conoscesse».[2]

Si è già osservato che la geomanzia rimanda ai babilonesi e alle loro arti divinatorie (cfr. Dn 4, 3-4; 5, 7). Ma anche l’azione della donna «onesta», che interviene «per far colei confusa» (27), ci ricorda per antitesi la stessa Babilonia, contro la quale è profetizzato: «confusa est mater vestra nimis et adaequata pulveri, quae genuit vos: ecce novissima erit in gentibus, deserta, invia et arens» (Ier 50, 12).
E proprio alla personificazione dell’‘antica’ ed apocalittica Città simbolo del male sembra riferirsi l’allegoria dell’«antica strega» comparsa nelle sembianze di una «serena» a Dante dormiente. Il Physiologus spiegava all’uomo medievale che «Ysaias dicit: “Syrena et demonia stabunt in Babilonia, et herinatius et honocentaurus habitabunt in domibus eorum”».[3] Esse aggrediscono proprio chi si addormenta, poiché «cum viderint eos gravissimo somno sopitos, invadunt eos et dilaniant carnes eorum...».[4]
Nella Bibbia Babilonia è assai spesso rappresentata in sembianze femminili, all’apparenza seducenti ma essenzialmente ripugnanti. La donna «santa e presta», rompendo l’incantesimo, squarcia la veste della sirena, e dal suo ventre esce un odore di putrefazione così intenso da svegliare Dante. La pericope ha un legame molto stretto con Is 14, 11, dove il profeta si rivolge al re di Babilonia: «subter te sternetur tinea, et operimentum tuum erunt vermes». In 47, 3 Isaia insiste: «Revelabitur ignominia tua, et videbitur obprobrium tuum». Si scoprono così le putrescenti nudità della grande incantatrice.

Virgilio, una volta allertato, avanza verso la ‘femmina balba’ in modo che «el venìa | con li occhi fitti pur in quella onesta», quest’ultima, “incarnata” da Beatrice, sul piano allegorico sembrerebbe, per antitesi, una personificazione della verità rivelata, che impedisce all’uomo di smarrirsi negli incanti del mondo. Scrive infatti il salmista: «Quoniam misericordia tua ante oculos meos est, et ambulavi in veritate tua» (Ps 26, 3).


Delle malìe di questa «antica strega» ritornano di continuo nelle Scritture. Nuovamente citiamo Isaia: «...sterilitas et viduitas, universa venerunt super te, propter multitudinem maleficiorum tuorum et propter duritiam incantatorum tuorum vehementem» (47, 9). Sono versi carichi questi, poiché il profeta aggiunge: «Sta cum incantatoribus tuis et cum multitudine maleficiorum tuorum [...]. Stent et salvent te augures caeli, qui contemplabantur sidera, et supputabant menses, ut ex eis adnuntiarent ventura tibi» (47, 12-13).


Il potere malefico di Babilonia è destinato a durare sino alla fine del mondo. La sua azione distruttiva riecheggia nell’apocalittica evangelica: «...et dabunt signa et portenta ad seducendos, si potest fieri, etiam electos» (Mc 13, 22). Ritroviamo questa Maliarda personificata, similmente alla «strega» dantesca, nell’Apocalisse, che riprende in chiave escatologica cristiana le profezie veterotestamentarie: «in veneficiis tuis erraverunt omnes gentes» (18, 23).


Ai vv. 58-59 Virgilio precisa che questa «antica strega | [...] sola sovr’a noi ormai si piagne»; ovvero, coloro che hanno ceduto all’incanto dell’ammaliatrice-Babilonia espiano la loro colpa nei tre cerchi superiori. Ciò in perfetto accordo con quanto scrive Agostino (En. in Psalmum 136, 14): «Nam qui volunt divites fieri, incidunt in tentationem et desideria multa, stulta et noxia, quae mergunt hominem in interitum et perditionem. Haec sunt flumina Babylonis. Radix est enim omnium malorum avaritia». A chi domanda : «Dicant nobis Christiani quid boni adtulit Christus? Unde feliciores putent res humanas, quia venit Christus?» (Ivi, 9), Agostino risponde che «...si nihil caderet de Babylonia, si ubertas esset circumfluentium voluptatum hominibus cantaturis et saltaturis ad turpia cantica, si libido scortantium et meretricantium haberet quietem et securitatem [...] felicia essent tempora, et magnam felicitatem rebus humanis Christus adtulisset. Quia vero caeduntur iniquitates, ut exstirpata cupiditate plantetur caritas Ierusalem» (Ibidem). Così viene ricordato Esaù, che perdette la primogenitura per una questione di gola: «Animalem autem eumdem dicit, quem carnalem ostendit. Homo qui nascitur, animalis esse incipit, carnalis esse incipit. Si se convertat a captivitate Babyloniae in reditum Ierusalem, renovatur [...] Memento, Domine, filiorum Edom. Libera nos a carnalibus, ab eis qui imitantur illum Edom, qui fratres maiores sunt, sed hostes sunt. Prius nati sunt; sed posterius nati vicerunt ad primatum: quia concupiscentia carnis illos deiecit; contempta concupiscentia istos erexit» (Ivi, 18).
Dante nel sogno percepisce dunque che il suo combattimento spirituale contro i tre vizi capitali è tutto inscritto in un conflitto cosmico che vede nella storia umana una lotta tra la Gerusalemme celeste e Babilonia, tra gli incanti del mondo e la verità divina, al fine di guadagnarsi la cittadinanza di ogni figlio di Dio. L’angelo che cancella la quarta P dalla fronte di Dante, al v. 50 ripete una delle beatitudini evangeliche («Qui lugent»; cfr. Mt 5, 5; Lc 6, 21), la quale a sua volta ricalca, oltre che, in primis, Ps 36, 11, anche Is 57, 13 («Qui [...] fiduciam habet mei, hereditabit terram...»), versetto di un capitolo che, ai suoi inizi, apostrofa gli israeliti, che da Babilonia si erano portati appresso il culto idolatrico, come “figli della maliarda”: «Vos autem accedite huc, filii auguratricis, semen adulteri et fornicariae» (57,3).


 La condanna di Babilonia è certa (cfr. Ap 16, 9; 18, 21), e i suoi cittadini verranno lasciati fuori dalla celeste Gerusalemme: «Foris canes et venefici [...] et omnis qui amat et facit mendacium» (Ap 22, 15). Nell’esperienza di Dante, la donna santa smaschera l’inganno, mostrando quanto poco abbia a che fare la «femmina balba» con la tenerezza e la voluttà, secondo quanto scrive Isaia: «quia ultra non vocaberis mollis et tenera» (47, 1). Svanisce nel fetore l’incanto malefico, ma esso lascia a Dante l’impressione di aver intravisto, nella sirena del sogno, così come nei traviamenti giovanili, la Grande Meretrice che, in ogni tempo, miete vittime in tutte le nazioni. La «serena» viene sconfitta, e le sue vittime, che di effimeri beni si arricchirono, ne piangono la caduta: «...una hora destitutae sunt tantae divitiae. Et omnis gubernator et omnis qui in lacum navigat et nautae et qui maria operantur longe steterunt, et clamaverunt videntes locum incendii eius, dicentes: [...] « Vae, vae civitas magna, in qua divites facti sunt omnes, qui habent naves in mari, de pretiis eius; quoniam una hora desolata est"» (Ap 18,17-19). Dante, nel dissidio tra «femmina balba» e «donna santa e presta» ricorda al lettore la necessità di scegliere tra affezione per i beni terrestri e tensione verso le realtà eterne. Così Agostino (En. in Psalmum 64, 2): «Ierusalem facit amor Dei; Babyloniam facit amor saeculi. Interroget ergo se quisque quid amet, et inveniet unde sit civis: et si se invenerit civem Babyloniae, exstirpet cupiditatem, plantet caritatem; si autem se invenerit civem Ierusalem, toleret captivitatem, speret libertatem».


[1] R. Hollander, La Commedia di Dante Alighieri, II, Firenze, Olschki, 2011, 162, nota ai vv. 10-15.

[2] Ibidem, nota ai vv. 7-9.

[3] L. Morini, Bestiari medievali, Torino, Einaudi, 1966, 32.

[4] Ibidem.