Nicola Fosca
(Independent Scholar)
21 September 2015


Inf. 34.96: “e già il sole a mezza terza riede”

Alla fine della ‘discesa’ infernale, il pellegrino Dante compie la prima tappa del viaggio di redenzione: la giustificazione o assoluzione dai peccati. Questa coincide con la ‘inversione’ – conversione che ha luogo, al centro della terra, sui fianchi del corpaccione di Lucifero: “Rivolgi gli empi e non esistono più”: Subvertuntur impii et iam non sunt (Prov. 12.7)[1]. La giustificazione è compiuta per esclusivo merito della gratia operans: Dante si è avvalso dell’aiuto di Virgilio, portatore di una gratia gratis data, in virtù della quale anche chi non è personalmente dotato delle canoniche virtù teologali è in grado di condurre un altro individuo alla meta. Come scrive Pietro di Dante, “dobbiamo porre sotto i piedi i vizi, se vogliamo distaccarcene”.

Questa figurazione del poeta pone in evidenza il fatto che la conversione ha come corrispettivo ‘fisico’ la inversione al centro della terra. Essa è preceduta dal racconto educativo delle pene dei dannati, di fronte alle quali il pellegrino deve riassestare i propri valori, imparare a distaccarsi da metri terreni di giudizio e, in certi casi, contrirsi del personale coinvolgimento con il peccato punito osservato: l’ultimo fenomeno ha luogo, grazie in primo luogo al pianto, nel caso dei lussuriosi (canto V) e dei seminatori di discordia (canto XXIX). Si tratta di attrizione, dettata da amore servile, non ancora di vera e propria contrizione, che ha luogo in coincidenza con il pentimento generale e quindi con la conversione.

Ma un altro particolare narrativo ci aiuta a collocare al centro dell’inferno e del mondo l’evento della giustificazione. Una volta passato, infatti, il centro al qual si traggono d’ogni parte i pesi (Inf. 34.111), Dante si accorge con meraviglia che l’orario fra le 7 e le 8 p. m. (Inf. 34.68) corrisponde lì, in quell’emisfero, al periodo fra le 7 e le 8 a. m.:

“Lèvati sù”, disse 'l maestro, “in piede:
la via è lunga e 'l cammino è malvagio,
e già il sole a mezza terza riede”. (Inf. 34.94-96)

È lo stesso Virgilio a spiegare la situazione:

Ed elli a me: “Tu imagini ancora
d'esser di là dal centro, ov' io mi presi
al pel del vermo reo che 'l mondo fóra. (Inf. 34.106-108)

Siamo perciò di fronte al passaggio da un periodo temporale contrassegnato dall’oscurità ad un periodo contrassegnato dalla luce solare. Se ne deduce quindi che il tempo che il poeta impiega per attraversare l’Inferno non oltrepassa di molto le 24 o le 25 ore: dal cadere della notte del Venerdì Santo fino a poco dopo il tramonto della vigilia di Pasqua. Leggiamo le considerazioni di Edward Moore.

“Veniamo ora alla curiosa e interessante questione, dell’intervallo di tempo impiegato da Dante nel passaggio dal centro della terra alla superficie di essa per raggiungere la montagna del Purgatorio. Questo intervallo fu di circa 21 ore: giacché in Inf. 34.96 sono presso a poco le 7.30 a.m., mentre nell’ultimo verso dell’Inferno i due poeti escono a riveder le stelle, le quali, come sappiamo da Purg. 1.13-21, erano le stelle dell’alba (del mattino seguente evidentemente) che brillavano nel cielo”[2]. L’evento del repentino passaggio di tempo, allora, ci aiuta a capire di quale fenomeno si tratti moralmente: infatti la giustificazione, istantanea, non è compresa immediatamente dal beneficiario ed implica il subitaneo passaggio ad un tempo contraddistinto e misurato dalla luce solare: infatti, ogni allusione al sole nell’Inferno è evitata dal poeta, perché è la luna la donna che qui regge (Inf. 10.80), e nell’Inferno anche il tempo, nel quale sorge il sole, è indicato (come si è visto a Inf. 20.126) per mezzo del tramonto della luna. Per converso, in Inferno, proprio nell’istante nel quale i due viatori sono passati nell’altro emisfero, e prima ancora che Dante abbia avuto il tempo di orizzontarsi, Virgilio indica l’ora per mezzo del sole.             Il passaggio dalla oscurità alla luce solare (grazie alla quale soltanto è possibile l’ascesa del Purgatorio) come raffigurazione etica della giustificazione è espressa nei termini seguenti nel corpo dell’ultima cantica:

Né tra l'ultima notte e 'l primo die
sì alto o sì magnifico processo,
o per l'una o per l'altra, fu o fie. (Par. 7.112-114)

Secondo tale esegesi, da noi già proposta[3], non è neanche necessario supporre l’utilizzo dello ýsteron próteron, come esige la lettura tradizionale. Bisogna comunque precisare che, secondo i Maestri di teologia, l’opera eccelsa di Dio consiste nell’Avvento, ma perché esso rende possibile la giustificazione: Tommaso d’Aquino afferma, nel sermone Ecce Rex, che “nessuna opera è meravigliosa (mirabile) quanto la venuta di Cristo nella carne”, ma specifica: “Niente gioverebbe a noi che Cristo sia venuto nella carne se di conseguenza non venisse anche nella mente, cioè santificandoci”. Il punto di riferimento è la dottrina del “triplice Avvento”, associata al nome di san Bernardo: “Nel primo avvento venne in carne ed infermità; nel medio in spirito e virtù; nell’ultimo in gloria” (Sermones in Adventu Domini, 5.1). Se il primo, irripetibile, fu storicamente determinato, il secondo, quello “nella mente”, è occulto e quotidiano: “come una volta, per portare la salvezza sulla terra, venne visibile nella carne, così ogni giorno viene in spirito ed invisibile per salvare le singole anime” (Ivi, 1.10). Leggiamo ancora nell’Ecce Rex: “Nel primo avvento venne soltanto il figlio. Nel secondo viene il figlio con il padre per abitare l’anima. Per mezzo di tale avvento, che porta la grazia che giustifica, l’anima è liberata dalla colpa”. Bernardo scrive che l’avvento di Cristo, sol iustitiae, è “come luce che splende nelle tenebre” (In Adventu Domini, 1.6): ogni volta che un peccatore è assolto, la luce della grazia dissipa spiritualmente le tenebre del peccato.

Nella prospettiva del “secondo Avvento”, quindi, il primo die si riferisce all’inizio della vita in stato di grazia, la vera vita dell’anima, “abitata” dallo Spirito. Si tratta della “donatio gratiae”, che ha inizio nel tempo, ma è “actum extra tempus et supra tempus elevatum” (Bonaventura, In I Sent., d. 14, a. un., q. 1). “Poiché l’infusione della grazia ha luogo in un istante, è la fine di un continuo movimento, come una meditazione con la quale la volontà è disposta alla ricezione della grazia; e la fine dell’identico movimento è la remissione della colpa, poiché la colpa è rimessa grazie al fatto stesso che la grazia è infusa. In quello stesso istante, allora, ha luogo la fine del perdono della colpa, cioè l’assenza di colpa, e la fine dell’infusione della grazia, cioè il possesso della grazia”. Ne consegue che “in tutto il tempo precedente che termina in questo istante, tempo in cui si misuravano i moti della suddetta meditazione, il peccatore aveva la colpa e non aveva la grazia, eccetto nel solo istante ultimo, come abbiamo detto. Ma prima dell’ultimo istante di questo tempo non è possibile rilevarne un altro ad esso immediatamente prossimo, perché, qualsiasi istante sia assunto diverso dall’ultimo, fra esso e l’ultimo ci sono infiniti istanti medi” (Tommaso, De Veritate, q. 28, a. 2). Perciò non è possibile indicare l’ultimo istante in cui si è ancora in colpa, per cui in questo caso si può solo parlare di “ultimum tempus”; questo periodo temporale, di varia durata per ogni anima, è moralmente tenebroso, ma non è semplicemente notte, giacché riguarda la fase preparatoria all’infusione della grazia: è piuttosto ultima notte.

Tale fase preparatoria è stata probabilmente rappresentata dal poeta:

Io non mori’ e non rimasi vivo;
pensa oggimai per te, s'hai fior d'ingegno,
qual io divenni, d'uno e d'altro privo. (Inf. 34.25-27)

“Questo momento è il culmine dell'imitazione penitenziale di Cristo nella discesa all'inferno, simbolicamente la morte del pellegrino al peccato, cioè la morte dell' ‘uomo vecchio’”[4]. Ma l’“uomo nuovo” deve ancora nascere. In Deut. 30 Dio, per bocca di Mosè, promette l'intervento liberatorio alla comunità esiliata e dispersa in Babilonia, a condizione però che il popolo si converta. Israele è a un bivio, tra la vita e la morte, la salvezza e la schiavitù: la conversione può dare l'avvio ad un nuovo Esodo.

A questo punto, una questione parallela si pone: quando Dante passò il centro della terra, si chiede E. Moore, “guadagnò 12 ore o le perse? Per effetto di questo repentino passaggio l’orologio si trovò improvvisamente indietro o avanti di dodici ore? La mezza terza del v. 96 stava a significare le 7.30 a.m. della vigilia di Pasqua o del giorno stesso di Pasqua? Le dottrine astronomiche non possono venirci in aiuto”; tuttavia, continua Moore, “ritengo per fermo che l’orologio, in Inf. 34.96, si trovò indietro e non avanti: cosicché sebbene la vigilia di Pasqua dell’emisfero settentrionale fosse impiegata e spesa da Dante nell’attraversare l’Inferno, la mezza terza immediatamente successiva al passaggio del poeta dal centro alla superficie della terra corrispondeva alle 7.30 a.m. della vigilia di Pasqua dell’emisfero meridionale. E questa seconda vigilia di Pasqua fu spesa, molto giustificatamente, nel passaggio caliginoso attraverso le viscere della terra”[5].             Se si pensasse il contrario, bisognerebbe supporre che Dante abbia trascorso il giorno di Pasqua in un ambiente squallido, aggrappato alle vellute coste di Lucifero. Cosa c’è di più discordante dall’idea della Pasqua di Resurrezione?


[1] N. Fosca, comm. ad loc.

[2] E. Moore, Gli accenni al tempo nella Divina Commedia, Firenze, Sansoni, 1900, p. 59.

[3] Né tra l'ultima notte e 'l primo die”, in EBDSA, May 2013.

[4] R. Durling e R. Martinez, comm. ad loc.

[5] Op. cit., pp. 59-60.