Antonio Soro
(University of Sassari)
14 April 2010


«...e già iernotte fu la Luna tonda» (Inf XX, 127): ipotesi sulla
Janua Inferni di Inf III, 1-9


La chiusura del canto infernale degli indovini, il XX, è nota per il suo riferimento alla Luna; ai versi 127-29 Virgilio ricorda a Dante che essa era piena quando attraversarono la selva:

e già iernotte fu la luna tonda:    
ben ten de' ricordar, ché non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda.

Della Luna Dante non parla nei primi canti del poema, tant’è che Umberto Bosco e Giovanni Reggio (1979) annotano: «Di questo particolare non vi è cenno nel primo canto». Daniele Mattalia, ancora prima (1960), segnalava l’anomalia parlando di «luce del plenilunio, filtrante nella selva (ma è la prima volta che se ne fa cenno)...». Questa stranezza può allertare e fare interrogare sul perché del silenzio di Dante. Tuttavia, il tacere del poeta in apertura dell’Inferno non è sufficiente, da solo, per fare affiorare degli interrogativi. La Commedia fornisce infatti altri esempi di personaggi o elementi menzionati post factum. E’ il caso di Inf XVI, 106-08, laddove Dante riferisce di aver cercato di «prender la lonza a la pelle dipinta» con «una corda intorno cinta»; un secondo esempio è fornito da Inf XXIX, quando Virgilio dice a Dante che, ai piedi del ponticello che avevano passato, «udì ‘l nominar Geri del Bello» (v. 27). Se il particolare della corda andrebbe visto, secondo il Nardi (interpretazione accolta da molti commentatori successivi), come figura biblica e liturgica di temperanza e castità, il mancato incontro di Dante col cugino di suo padre Alighiero va invece ricondotto, per quanto afferma lo stesso Dante ai vv. 31-32, ad una «violenta morte...non vendicata ancor».

Ma se in tutti e due i casi disponiamo di una giustificazione di ordine morale, la lacuna narrativa in relazione con Inf XX, 127-30 appare invece ai commentatori ora di quasi nessuna importanza, ora invece velata di mistero; i primi possono forse riconoscersi nell’ipotesi che si tratti di «un'invenzione di questo momento, per dare maggiore plausibilità alle parole di Virgilio» (A. M. Chiavacci Leonardi, 1991-97); i secondi, invece, notano quantomeno che «di questa importante circostanza, che quasi certamente avrà un significato allegorico, non si fa parola nel racconto del suo smarrimento nella selva» (Chimenz, 1962). Ma, se la Luna si trovasse realmente in apertura del poema, dove si potrebbe rivolgere lo sguardo? I versi iniziali del canto III - la cui ambientazione scenica nelle prime terzine è nel cuore della selva, tant’è che, all’ultimo verso del canto precedente, Dante dichiara: «intrai per lo cammino alto e silvestro» - e in particolare i primi tre, sono architettati in maniera da comunicare al lettore un’impressione profonda e angosciante che il poeta avverte nel trovarsi dinanzi alla Janua Inferni.

Per me si va ne la città dolente
per me si va ne l’etterno dolore
per me si va tra la perduta gente.

La celebre e cupa anafora insiste sullo scenario tragico che si prospetta all’anima perduta: ella, giunta alla soglia dell’eterno castigo, si trova dinanzi ad una iscrizione «a somiglianza delle epigrafi metriche che si trovavano sulle porte delle città medievali» (Chiavacci Leonardi, 1991-97). L’analogia colta da Robert Hollander [1]tra la porta e l’arco trionfale romano si rivela assai interessante: «each condemned sinner is being led back captive to 'that Rome of which Christ is Roman' (Purg. XXXII.102), 'under the yoke' into God's holy kingdom, where he or she will be eternally a prisoner».

Certamente quella tragica iscrizione segna una sconfitta definitiva; ma è anche rivolta espressamente a chi si accinge a fare un tragico viaggio: a partire da quella soglia comincia un cammino del tutto nuovo. E’ importante ricordare quanto osserva Chiavacci Leonardi riprendendo Benvenuto da Imola (1375-80: «idest inclaustro nigro»), e cioè che la precisazione del v. 10 – «parole di colore oscuro» - va interpretata «letteralmente: a caratteri scuri, neri». Si tratta dunque di una scritta scura, nerastra su superficie più chiara.

Questa però, per Dante, è proprio la caratteristica cromatica con la quale si presenta la Luna piena, che mostra aree scure laddove sappiamo essere situate le sue pianure, che nel Seicento presero i nomi di Oceanus Procellarum, Mare Imbrium, Mare Tranquillitatis e di Mare Serenitatis (Dante chiama tali regioni «Caino e le spine».[2] La stessa impressione cromatica, trasfigurata di gloria, la ritroviamo infatti nel canto I del Paradiso, dove Dante domanda, parlando di «segni bui»: «[...] che son li segni bui | di questo corpo, che là giuso in terra | fan di Cain favoleggiare altrui?» (vv. 49-51).

La Luna, Janua Coeli e Janua Inferni, identificata dagli antichi con Ecate, la «Trivia»[3] psicopompa, signora dei crocevia e custode dei boschi sacri,[4] «presenta due aspetti opposti; uno è benevolo e benefico [...] L’altro aspetto è invece terribile e infernale: è “la dea degli spettri e dei terrori notturni...è la maga per eccellenza, la maestra della stregoneria”».[5] Ecate benevola l’abbiamo già incontrata nel canto XXVIII del Purgatorio (vv. 28-37),[6] là dove un rio (v. 28) segnava un crocevia. Ma Ecate, nel suo aspetto oscuro, oltre che essere dea della Luna per i pagani era, come detto, signora della magia nera; «la sua effigie veniva posta sui crocicchi [...] fu onorata sotto l’Impero come dea della magia infernale».[7] La dea dei trivi vigilava su ogni cammino spirituale umano; ella attendeva i pellegrini a crocevia dopo i quali la vita poteva manifestarsi nei suoi aspetti sublimi e celesti o poteva anche terminare nelle tenebre della morte: «come dea ctonia collegherebbe i tre livelli del mondo (gli inferi, il mondo terreno, il cielo) e, a questo titolo, sarebbe onorata come la dea dei crocicchi, infatti ogni decisione da prendere a un crocicchio implica non solo una direzione in senso orizzontale sulla superficie della terra ma, più profondamente, una direzione in senso verticale verso l’uno o verso l’altro dei livelli di vita scelti».[8] Troviamo, nei primi versi del canto terzo dell’Inferno, un crocevia in corrispondenza della Janua Inferni? Sì, lo troviamo, ed è presente in una maniera carica di senso spirituale.  Se, infatti, dirigersi verso un trivio vuol dire fare un cammino iniziatico di vita interiore, l’oltrepassarlo al contrario, dalla triforcazione verso l’unica strada, è da considerarsi come un cammino di morte, un retrocedere e un andare sempre più lontani dal celeste destino dell’anima. E lo spirito che va all’inferno passa proprio il trivio ‘al contrario’: infatti, si ritrovano a convergere verso lo stesso tragico cammino le anime perdute che percorrono tre equivalenti vie spirituali:

Per quella porta è la strada che va lontano dalla città di Dio;[9]
per quella porta è la via che fugge dall’eterna beatitudine;
per quella porta è il cammino che aliena dalla gente ritrovata.[10]

Dove in vita la grazia divina operava per condurre l’anima fino all’incontro con Dio, adesso invece, sotto la custodia di Ecate, presente nella teofania lunare ostile, l’anima perduta percorre il trivio in senso inverso, in un ultimo viaggio privo di speranza. Nel climax ascendente della terzina, la signora dei tre mondi sembra svelarsi pian piano nel suo aspetto terribile.

Resta da esaminare il significato, nel contesto del XX canto dell’Inferno, del non ti nocque presente al v. 127. Sul senso di queste parole fornisce lumi Nicola Fosca (2003-2006), quando osserva, riguardo ai vv. 127-29: «Il richiamo alla Luna non esula dal tema basilare del canto, rientrando essa nelle arti magiche, specie in quelle delle fattucchiere...».

Dante, pellegrino cristiano che si appresta a varcare la soglia dell’inferno da vivo come pochi privilegiati,[11] ha forse in mente proprio l’antica dea pagana, signora delle arti magiche,[12] quando, sotto la luce della Luna (poi ricordata da Virgilio in Inf XX), comincia il suo viaggio nella selva. A lui essa “non nocque”, ma in ossequio alla volontà divina lo mise «dentro a le segrete cose». Varcata anche spiritualmente la soglia della Janua Inferni, ci spiega Lino Pertile, «Dante può avventurarsi sotto terra, in quello che poco più avanti chiamerà “l’alto passo” (II, 12), in altre parole attraversare il regno dei morti, perdersi per ritrovarsi, paradossalmente morire per vivere».[13]


[1] Allegory in Dante’s “Commedia”, Princeton, Princeton University Press, 1969, 300.

[2] Inf XX, 126.

[3] Aen VI, 609: «Hecate triviis ululata per urbes».

[4] «[...] suspiciens altam Lunam [...]: | « Tu, dea, tu praesens nostro succurre labori, | astrorum decus et nemorum Latonia custos» (Aen IX, 403-05); «Tu potens Trivia et noto es | dicta lumine Luna» (Cat., XXXIV, 15-6).

[5] J. Chevalier, A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli, I, Milano, Rizzoli, 1995 [1986], 401; la citazione all’interno è di P.  Lavedan, Dictionnaire illustré de la Mythologie et des Antiquités grecques et romaines, 1931, 497.

[6] A. S., L’acrostico inverso ECATE di Purg XXVIII, 25-37 e l’identità di «Matelda», March 18, 2009, www.dantesociety.org/publications.html | EBDSA |Purgatorio.

[7] F. Ferrari et al., Dizionario della civiltà classica, I, Milano, Rizzoli, 2001 [1993], 872.

[8] Ibidem. E tale verticalizzazione è proprio quella che caratterizza il pellegrinaggio di Dante per i tre regni.

[9] Cfr. Ap 22, 14 ; Inf I, 126.

[10] Lc 15, 5 e Mt 18,13 usano invenio.

[11] Dirà la Sibilla ad Enea: «[...] nulli fas casto sceleratum insistere limen; | sed me cum lucis Hecate praefecit Avernis...» (Aen VI, 563-64).

[12] «Illa [Circen] nocens spargit virus sucosque veneni | [...] et longis Hecaten ululatis orat» (Met XIV, 403-05).

[13] L. Pertile, Dante, Ulisse e l’altro viaggio (Inf I, 91), June 12, 2007, www.dantesociety.org/publications.html | EBDSA |Inferno.