Lodovico Cardellino
(Independent Scholar, Aosta, Italy)
23 February 2006


I "vivi suggelli" in Paradiso 14.133

Si continua a discutere su cosa siano i “vivi suggelli / d’ogne bellezza,” se gli occhi di Beatrice o i cieli o gli spiriti beati, o forse tutto questo ed altro. Per cercarne il senso è utile ricordare che le forme “sigill-” e “suggell-” sono equivalenti [1] e che “sigillo” indica, in senso sia reale sia metaforico, lo strumento o soggetto che imprime un’impronta oppure l’impronta stessa, significati che peraltro, come vedremo, in paradiso tendono a coincidere. Più volte nel poema il sigillo è citato in relazione alla cera impressa, in similitudini fisiche o in metafore.

“Il giudiziosissimo P. Lombardi … prova doversi per vivi suggelli intendere i Cieli stessi, e così appunto l’intese l’espositore del Cod. Montecas. chiosando idest Caeli imprimentes ut sigilla, ed ecco come con uno de’ primi antichi comentatori di Dante rincontrasi l’ultimo recentissimo” (Luigi Portirelli). [2]
Così anche Henry Wadsworth Longfellow. Poi più sottilmente Brunone Bianchi:
“quelli che per i vivi suggelli intendono gli occhi di Beatrice, a parer mio s’ingannano, che il suggellare e il fare sono espressioni ripetute cento volte a dimostrare le operazioni dei cieli; e la difficoltà che si oppone del doversi riferire l’aggettivo quelli del verso 135, non a suggelli che gli è prossimo, ma agli occhi belli del verso 131, è una misera sottigliezza; che anzi il quelli è sempre ben riferito all’idea più remota.”

G. A. Scartazzini ne fa un’attenta analisi, con discussione delle precedenti opinioni::

“Noi non possiamo vantarci di avere confrontati tutti gli espositori. Ne esaminammo tuttavia accuratamente sessantacinque a questo passo; forse che tanti non ne esaminò nemmeno il Notter. Or di questi 65 interpreti trentacinque intendono per i vivi suggelli i Cieli; dieciotto gli occhi di Beatrice; due i beati, quattro si esprimono in modo da non poter dire con certezza quale si fosse la loro opinione; sei tirano via senza dire nulla.”

Dante aveva già ricordato all’inizio della cantica che la gloria divina “per l’universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove”: il risplendere diversamente nei vari posti (alle varie persone) è la prima immagine dell’armonia del paradiso e dell’universo che siamo chiamati a contemplare e godere. Salendo Dante impara ad apprezzare sempre meglio anche le cose mondane, riconoscendo in ognuna l’orma divina (Par. 1.106-108). “La divina bontà … dispiega le bellezze etterne” e “non si move / la sua imprenta quand’ella sigilla” (Par. 7.64-69; cf. anche Par. 12.31, “L’amor che mi fa bella”).

I cieli ne sono tramite, influenzando gli uomini e le cose mondane, ma non significa che siano “sigilli / d’ogne bellezza”: il sole, “lucerna del mondo … la mondana cera … tempera e suggella” (Par. 1.38-42); “la circular natura … è suggello a la cera mortal” (Par. 8.127-128); lo ripete Par. 13.73-75. Anche Par. 2.123, invocato da molti per l’analogia del “fare” detto dei cieli “che di sù prendono e di sotto fanno,” conferma che i cieli agiscono sulla terra e sui cieli inferiori, nell’ordine dell’universo, a cominciare dal cielo stellato, che della mente divina “prende l’image e fassene suggello” (Par. 2.130-132).

Per quanto riguarda il rapporto con i beati, che secondo altri sarebbero i vivi suggelli, una volta è il cielo a farsi più bello per la presenza o il riso di Beatrice (Par. 5.94-96), un’altra è l’aumentata bellezza di Beatrice a indicare la salita a un cielo superiore (Par. 8.13-15), perché in cielo la bellezza, come lo splendore, la letizia (cf Par. 8.85-90 ecc.), il nutrimento spirituale (Par. 5.100-105 e 119-120), sono attivi e riflessivi e contagiosi, in reciproca esaltazione. Allo stesso modo i singoli beati hanno un rapporto di reciproco scambio con il cielo di cui fanno parte e con il coro degli altri beati: di Raab Folco dice (Par. 9.116-117) che “a nostr’ordine congiunta, / di lei nel sommo grado si sigilla”; di solito si intende che il nostro ordine (il cielo o il coro dei beati) si sigilla di lei, ne è abbellito o illuminato, anche se ciò comporta una sintassi denunciata come irregolare già da Andreoli, Brunone Bianchi e altri; così avevo pigramente inteso anch’io a suo tempo. [3] Altri intendono Raab soggetto e “lei” riferito all’ordine, che ai tempi di Dante era a volte femminile. Scartazzini, sempre molto analitico e documentato, intende con altri Raab soggetto ma “di lei” come “di sé,” che mi pare una forzatura imposta dal confronto con quanto ha appena detto Folco, che “questo cielo / di me s’imprenta, com’io fe’ di lui” (vv. 95-96); per lo stesso confronto e con lo stesso senso altri riferiscono “lei” alla “lumera” citata sei versi prima. Ma a me pare molto significativo e coerente allo spirito del paradiso che nello stesso discorso Folco proponga due affermazioni diverse, di sigillo dato dal beato al suo cielo e da questo a quello, a ricordarne l’essenziale reciprocità e sottolineare che Raab prende la sua luce proprio dal cielo di Venere, lo stesso che ha caratterizzato la vita di Folco: non sono le crociate a farne dei beati! Dante deve salire ancora per riuscire a vedere la bellezza anche nelle violenze crociate… Credo perciò che sia migliore la lezione “di lui nel sommo grado si sigilla”, attestata in molti codici; secondo Petrocchi “la forma prescelta [di lei] rende più cortese e più efficace l’omaggio reso da Folchetto”; ma gentilissima era stata Piccarda nei confronti di Costanza, dicendo “che s’accende / di tutto il lume de la spera nostra” (Par. 3.110-111); curiosamente Steiner sostiene l’interpretazione tradizionale rinviando proprio al caso opposto di Costanza. Pur essendo ampiamente attestata dai codici e autorizzata dallo stesso Petrocchi (secondo cui però “il risultato in definitiva è lo stesso”) la lezione che io propongo è stata presa in considerazione solo da pochi nei primi tempi.

Comunque nulla suggerisce che i beati siano suggello di “ogni bellezza,” come sostiene in particolare Barbi, né in senso attivo né passivo; Momigliano, che argomenta felicemente in base a criteri estetici, osserva che, riferiti ai beati, i “vivi suggelli” sarebbero “una fredda perifrasi.” Tanto più che in realtà i beati sono in Empireo (Par. 4.25-36); anche se in Inferno con grottesco umorismo il terzo girone dei violenti “suggella / del segno suo e Soddoma e Caorsa” (If 11.49).

Beatrice invece, in quanto immagine del Verbo divino, rende ogni cosa più bella, e tanto più quanto più sale; Dante si scusa di averne posposto gli occhi perché lì non li ha ancora guardati e salendo ogni cosa diventa più bella; la scusa non varrebbe se dicesse che salendo solo gli occhi di Beatrice diventano più belli; inoltre, se fossero solo gli occhi, ultimo termine nominato, vedrei meglio riferirsi ad essi con “elli” anziché “quelli,” che indica un termine lontano; è vero che essi sono citati prima delle due premesse, ma così lontano che sembra sintatticamente pesante riferire “quelli” ad essi, a meno che “i vivi suggelli” li richiamino indicando qualcosa di più generale che li comprende: “ho posposto le bellezze di Beatrice; ma chi rifletta che tutte le bellezze crescono salendo e che lì non avevo ancora guardato quelle ....”

I vivi suggelli sono dunque quelli impressi in ciascuna cosa dalla divina bontà, e perciò sono vivi (cf Par. 7.67-69). Così già Ernesto Trucchi: “i vivi suggelli sono tutte le cose vive, cioè di Paradiso, in cui si riflette la divina bontà: i cieli, le anime beate e gli occhi di Beatrice. Tutti e tre questi elementi si fanno montando più belli, di cielo in cielo.” In quanto attivi, i suggelli di ogni bellezza rendono ogni cosa bella, e tanto più quanto più si sale; in quanto passivi, impronte lasciate da Dio nelle cose, ne costituiscono la bellezza e “fanno” nel dar piacere a chi li mira, piacere che cresce salendo; pur nella sostanziale coincidenza dei due aspetti, qui mi pare sottolineato il secondo. Inoltre salendo i suggelli rendono ogni cosa più bella non solo di quanto la singola cosa fosse prima, ma di qualunque cosa vista prima, anche degli occhi di Beatrice.

Il pensiero corre subito, per chi abbia dimestichezza con i vangeli, al detto di Gesù sul Battista, che è il più grande “tra i nati di donna … tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui” (Mt 11,11) [4]: qui c’è un ulteriore paradossale scambio, dato che Cacciaguida e in genere i crociati rappresentano proprio il Battista, che da un cielo più alto affascina di più che Beatrice stessa vista prima, nel cielo inferiore.

Questo ci conferma che non si tratta di maggior bellezza oggettiva, che non ha senso graduare nell’armonia di paradiso dove ogni cosa ha il suo ruolo, mentre semmai dal punto di vista terreno Dante salendo incontra aspetti simili a quelli che incontrò in inferno scendendo, perché man mano impara ad assolvere quelli che mondanamente diremmo “difetti sempre peggiori” [5] : ogni cosa gli appare più bella perché Dante si avvicina a Dio e quindi diventa più simile a Lui, trasumanando.


[1] “La forma ‘suggellare’ e la forma dotta ‘sigillare’ sono, negli stessi luoghi, alternate nella tradizione manoscritta”: A. Niccoli, “suggellare (sigillare)”, in ED 5:472; la stessa osservazione è ripetuta subito dopo, alla voce “suggello (sigillo),” per le forme ‘suggello’ e ‘sigillo.’ La forma dotta compare solo in Paradiso (4 volte il verbo e 3 il sostantivo), l’altra (5 volte in Paradiso, 3 ciascuna nelle altre cantiche) è sempre in rima, tranne nella forma tronca e nel participio passato del verbo.

[2] Ove non sia indicato diversamente, la fonte dei commenti citati è Dartmouth Dante Project [http://dante.dartmouth.edu/].

[3] L.Cardellino, La Commedia come ermeneutica biblica (I primi 14 canti del Paradiso) (Bornato, 2003), 337-338.

[4] Cf L. Cardellino, “Gesù e il Battista”, Bibbia e Oriente216 (2003), 65-127.

[5] È questo un tema centrale di La Commedia, cui rinvio per le verifiche.