Nicola Fosca
(Independent Scholar)
11 February 2011


Par. XXXII.75: "sol differendo nel primiero acume"

Nell’Empireo, san Bernardo spiega a Dante che i bambini, anche se si salvano non per merito proprio, occupano scanni di diversa posizione, in funzione della differenza nel primiero acume, nella disposizione a vedere Dio. Alla creazione, Dio di grazia dota |diversamente ogni anima (XXXII.65-66). Questa, perciò, è individuata anche prima di unirsi al corpo: dottrina apertamente sostenuta da san Bonaventura. L’anima è immagine del Creatore soprattutto perché, per il Bernardo ‘storico’ e per Bonaventura, è dotata di libero arbitrio, lo maggior dono concesso da Dio all’umanità (Par. V.19). Essa è subito disposta in vista di Dio e rappresenta la configurazione divina con la disposizione interna delle sue potenze, che possiede “ad mensuram” (Bernardo, In Cant. 80.3). La corrispondenza analogica fra l’ordine e la configurazione degli elementi come esistono nella causa e come sono disposti nell’oggetto “consistit non in quantitate molis, sed in quantitate virtutis, scilicet in potentiis” (Bonaventura, In Sent. II, d. 16, a. 1).

Bernardo espone a Dante, come esempio, la storia di Esaù e Giacobbe (Gen. 25), usualmente connessa a Mal. 1.2-3 (“ho amato Giacobbe, ma odiato Esaù”) ed interpretata secondo modalità paoline: “… cum enim nondum nati fuissent, aut aliquid egissent boni aut mali, ut secundum electionem propositum Dei maneret, non ex operibus, sed ex vocante dictum est ei: quia maior serviet minori; sicut scriptum est: Jacob dilexi, Esau autem odio habui”(Rom. 9.10-13).

La chiosa standard rinvia al Maestro delle Sentenze: “Electorum alios magis, alios minus dilexit ab aeterno” (III, d. 32, a. 2). Così procedendo, però, essa trascura la circostanza che la storia biblica era connessa al tema della reprobatio, ossia del disegno precostituito di Dio (“Elegit nos in ipso ante mundi constitutionem”: Ephes. 1.4) che, consentendo a molti di peccare negando la grazia, li priva del Cielo. In effetti Pier Lombardo parla di eletti, tanto che così prosegue: “De non electis, simpliciter est concedendum quod odio habuit, id est reprobavit (Mal.)”. Esempio di questi è appunto Esaù. La provvidenza, spiega l’Aquinate, consente che molti uomini manchino di raggiungere il fine della beatitudine eterna: il loro libero arbitrio, infatti, è riprovato e “a gratia deseritur”. Quindi, “sicut praedestinatio est pars providentiae respectu eorum qui divinitus ordinantur in aeternam salutem, ita reprobatio est pars providentiae respectu illorum qui ab hoc fine decidunt. Unde reprobatio non nominat praescientiam tantum: sed aliquid addit secundum rationem, sicut et providentia. Sicut enim praedestinatio includit voluntatem conferendi gratiam et gloriam, ita reprobatio includit voluntatem permettendi aliquem cadere in culpam, et inferendi damnationis poenam pro culpa” (Summa theologiae I, q. 23, a. 3).

Intendendo il racconto biblico alla luce della teoria secondo cui tutti gli uomini, alla nascita, sono forniti di differente acume, il poeta mira probabilmente ad accantonare il motivo della reprobatio. In tale prospettiva il libero arbitrio è causa (de)meritoria della perdita di quel che Dio ha stabilito come supremo fine, infondendone il preannuncio in ogni anima. Tutto ciò è consonante con l’argomento dichiarato del poema: “subiectum est homo prout merendo et demerendo per arbitrii libertatem iustitie premiandi et puniendi obnoxius est” (Epist. XIII.25). Il principio della autonomia assoluta del libero arbitrio, in effetti, è difficilmente conciliabile – secondo dogma della religiosità ‘popolare’ – con il tema della reprobatio. Decisiva l’influenza esercitata al riguardo da sant’Agostino. L’Ipponate, sulla base di Rom. 9, afferma che Dio salva chi vuole in un decreto pretemporale, che ignora le buone opere. La sua misericordia non può essere vana: “non potest effectus misericordiae Dei esse in hominis potestate, ut frustra ille misereatur, si homo nolit”; perciò, “quis audeat dicere defuisse Deo modum vocandi, quo etiam Esau ad eam fidem mentem applicaret voluntatemque coniungeret, in qua Iacob iustificatus est?” (De quaestionibus ad Simplicianum,1.2.13-14). Il disegno di predestinazione, infallibile, non è semplice prescienza, ma decisione ed azione di Dio. Anche Tommaso d’Aquino evidenzia l’irresistibilità della grazia, per cui non si può parlare di “merito” se non in funzione della “divina motio” (Summa theologiae I-II, q. 114, a. 9). Nel momento della giustificazione è richiesto il “motus” del libero arbitrio, ma Dio infonde la grazia giustificante e “simul cum hoc movet liberum arbitrium ad donum gratiae acceptandum” (Ivi, q. 113, a. 3). Il processo è, agostinianamente, infallibile: “si ex intentione Dei moventis est quod homo cuius cor movet, gratiam consequitur, infallibiliter ipsam consequitur” (Ivi, q. 112, a. 3).

Ma, restando indiscutibile il ruolo indispensabile e prioritario della grazia, in qual modo è possibile garantire presso l’homo lapsus l’autonomia del libero arbitrio? Una strada da percorrere è quella che fu ‘storicamente’ imboccata proprio dal dottore (XXXII.2) che nell’Empireo sta indottrinando Dante, cioè Bernardo. Ciò potrebbe offrire ragione della funzione eminente che il Chiaravallese, per la sua specifica dottrina (XXXII.106), oltre che per la sua devozione a Maria o per le grandi capacità contemplative ed oratorie, svolge nel corpo del poema. Ed infatti, a proposito dei celebri gemelli, ecco come egli si esprime: “Cum in populo Dei carnales alii sint, et alii spirituales, nec illi tamen aeternorum, nec isti carent omni modo temporalium desiderio. In eo sane distant, quod plus alia appetunt alii, et secundum ea quae praeferunt, aut spirituales, aut carnales iudicantur. Hinc est quod in benedictionibus Jacob et Esau, et ros coeli, et terrae pinguedo nominatur, sed non eodem ordine in utroque. Det tibi Deus de rore coeli et de pinguedine terrae abundantiam, ait Isaac ad Jacob. Ad Esau vero: In pinguedine terrae, inquit, et in rore coeli desuper erit benedictio tua (Gen. 27.28, 39, 40)” (Sententiae, 1.5). Come si vede, la distinzione fra Esaù e Giacobbe, fra “carnali” e “spirituali”, non è questione di aut-aut, bensì di ‘più o meno’, di gradazione di grazia (rugiada), ovviamente non “gratum faciens”.

Nel trattato De gratia et libero arbitrio, ove mai si accenna alla reprobatio, Bernardo approfondisce la concezione “filosofica” (boeziana, per Dante: “liberum de voluntate iudicium”: Mon. I.xiii.2) del libero arbitrio: esso, definito come “consensus ob voluntatis inamissibilem libertatem, et rationis indeclinabile iudicium”(4), costituisce il fondamento della libertà umana e non può mai venire meno, anche se, dopo la Caduta, è debole: “miserum, tamen integrum”(24). Di qui l’indispensabilità dell’intervento di Dio, che prepara, chiamae giustifica. Ma la vocatio, ossia l’offerta di grazia, lascia libero l’individuo di rispondere: qui risiede il “merito”, giacché egli può anche rifiutare l’offerta(45-46). Bonaventura, su tale linea, affermerà che Dio non conduce alla salvezza coloro che, nella sua prescienza, sa che declineranno l’offerta. Così è interpretato Ephes. 1.4, mentre 1 Tim. 2.4 (“Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati”) è inteso ricorrendo alla distinzione (di diverso tenore in Agostino e Tommaso) fra volontà antecedente e volontà conseguente: “antecedens, qua vult quantum in se est; consequens, qua vult cum praescientia nostrae salutis. Et prima quidem est omnium; secunda vero non. Secundum hunc modum est dilectio duplex: una quae respicit voluntatem antecedentem, et hac diligit omnes; est et alia quae respicit consequentem, et hac diligit omnes salvandos, et haec est electio“ (In Sent. I, d. 40, a. 3). Dio non concesse la grazia (“gratum faciens”) ad Esaù, in conseguenza, “quia permansurum vidit in malitia” (In Sent. IV, d. 4, p. 2, a. 2). Nello spiegare l’evento della iustificatio impii, Bonaventura prende le mosse dalla tesi di Bernardo (“Opus salutis duo requirit, id est Deum dantem et liberum arbitrium recipiens et consentiens”), specifica che Dio “semper paratus est iustificare hominem”, per poi concludere che Dio non conferisce la giustificazione “nisi volenti, dum sit in tali statu, quod consentire et dissentire possit” (Ivi, d. 17, p. 1, a. 1).

Quindi il poeta poteva reperire nel Bernardo ‘storico’ un presupposto basilare della propria filosofia e visione dell’oltretomba: la grazia è abbondante e pronta per tutti (“omnibus parata“: Sententiae, 3.97), sono dannati coloro che respingono l’offerta di grazia, cioè – come dichiarato da Virgilio – “si ribellano” alla legge divina (Inf. I.125). La ragione è in grado di riconoscere l’esistenza del Creatore: “Meretur ergo amari propter seipsum Deus, et ab infideli: qui etsi nesciat Christum, scit tamen seipsum. Proinde inexcusabilis est omnis etiam infidelis, si non diligit Deum…” (Bernardo, De diligendo Deo, 6).

La presenza di Bernardo sembra evincersi anche dal passo ove Beatrice definisce il libero arbitrio lo maggior dono, a Dio più conformato (Par. V.21). Nel De gratia et libero arbitrio, infatti, si legge che il “dono” del libero arbitrio (elargito alla creazione) è “imago Conditoris”, riferendosi alla pura libertà di scelta (“libertas a necessitate”). Ma quando la scelta è buona, quando l’arbitrio è assoggettato a Dio (liberi soggiacete: Purg. XVI.80), allora esso è anche “similitudo Dei”, è “libertas a peccato”(28-30). Per giungere a ciò l’uomo abbisogna di Cristo-Sapienza, che consente di reintegrare la “pristina imago”, macchiata dal peccato, e renderla conforme a Lui: “Venit ergo ipsa forma, cui conformandum erat liberum arbitrium, quia ut pristinam reciperet formam, ex illa erat reformandum, ex qua fuerat et formatum. Forma autem, sapientia est, conformatio, ut faciat imago in corpore, quod forma facit in orbe”(33). Tale “reformatio” è meritoria “propter consensum volontarium”(49). Il libero arbitrio, aveva detto Virgilio, de l’assenso de’ tener la soglia. / Quest’è ‘l principio là onde si piglia / ragion di meritare in voi… (Purg. XVIII.63-65).