Nicola Fosca
(Independent Scholar)
1 March 2015


“Per paradisum terrestrem figuratur” (Monarchia III.xv.7)

Nell’ultimo capitolo della Monarchia, come è noto, Dante afferma che la beatitudine della vita terrena è conseguibile operando secondo le virtù acquisite, morali ed intellettuali, mentre la beatitudine celeste, il secondo dei “duo ultima” per l’uomo, implica il possesso delle virtù teologali: alla prima conduce l’Imperatore, che si serve all’uopo dei “phylosophica documenta”, alla seconda il Sommo Pontefice, sulla base dei “documenta spiritualia”. Come abbiamo sottolineato[1], questa teoria presuppone la decisiva funzione dell’Impero, il quale è per Dante strumento della grazia e, come la Chiesa, “remedium contra infirmitatem peccati” (Mon. III.iv.14). L’Impero, tenendo a freno con la legge la “voluntas corrupta” dei sudditi, fa sì che individui dotati soltanto di virtù acquisite portino a compimento le loro possibilità naturali: essi, malgrado i vulnera conseguenti al peccato originale e malgrado siano nella condizione peccaminosa di aversio a Deo (in quanto non dotati di virtù teologali), sono in grado di evitare la conversio ad bonum commutabile, non violando così la legge etica naturale. Il peccato consiste da una parte nell’aversio a Deo (superbia come initium), dall’altra in tale conversio (cupidigia come radix); tuttavia i cittadini dell'Impero possono evitare la seconda pur essendo in situazione di aversio a Deo. Questo status morale caratterizza eternamente, per Dante, gli abitatori del Limbo[2]. In maniera decisamente eterodossa, Dante ritiene possibile che anche chi non è in stato di grazia possa evitare di peccare violando la misura della ragione: è la forza coercitiva della legge, che lo Stato giusto applica, a sorreggere la natura lapsa dell'uomo.

Per Dante l’Impero Romano, lo Stato perfetto, favorì in maniera ottimale il primo Avvento; analogamente i capi di Stato, che per lui dovrebbero essere guidati dall'Imperatore, il “cavalcatore de l’umana volontade” (Cv IV IX 10), hanno il compito, facendo rispettare le leggi, di favorire l’Avvento quotidiano “nello spirito”. Tale contributo è effettivo se chi ne usufruisce, rendendosi conto che il potere temporale è sempre provvidenzialmente istituito, opera della Grazia, subordina la sottomissione al Padre-re alla sottomissione al vero Padre, quello celeste, la quale implica carità e timore casto o filiale. L'iter morale dovrebbe consistere nel progresso dal timore che è “a Deo avertens”, cioè quello mondano, al timore che è “ad Deum convertens”, prima servile (paura della pena), poi “iniziale” (filiale ma con persistente paura della pena) ed infine veramente filiale. Scrive Tommaso d’Aquino: “... potestates seculares, quando inferunt poenas ad retrahendum a peccato, in hoc sunt Dei ministri; secundum illud Rom. 13.4: Minister enim Dei est, vindex in iram ei qui male agit. Et secundum hoc timere potestatem saecularem non pertinet ad timorem mundanum, sed ad timorem servilem vel initialem” (Summa Theologiae II-II, q. 19, a. 3).

Ciò fa capire come il rispetto della legge, di per sé, sia comportamento virtuoso, pur se non sorretto (ancora) dalle virtù teologali, in primis la carità. Tanto virtuoso, afferma Dante, da condurre al Limbo e consentire una felicità terrena, che “in operatione proprie virtutis consistit” e “per paradisum terrestrem figuratur” (III.xv.7). Ora, l’Eden, nello stato attuale dell’umanità corrotta, non è accessibile in questa vita, ma presuppone un lungo percorso ultraterreno di recupero, restaurazione (gratia sanans e gratia elevans) e consolidamento (innocenza); non resta quindi che supporre, considerato anche che il termine figura, strettamente inteso, implica uno sfasamento temporale fra gli elementi della correlazione, che l’accenno di Dante al Giardino si riferisca al periodo precedente la Caduta: in quel (breve) periodo i protoparenti erano caratterizzati dalla pienezza delle capacità naturali (per quanto sorrette dalla soggezione della ragione a Dio), pienezza poi persa in seguito al peccato originale, che causò la corruzione della natura umana, divenuta da quel momento assai prona agli allettamenti mondani[3].

Nell’art. del 2012 abbiamo preso in esame la posizione dell’Aquinate, per il quale, se prima della Caduta la grazia si limitava a dare continuità alle azioni naturali dell’uomo, dopo la Caduta è richiesto un intervento straordinario (misericordioso) di Dio: solo in tal maniera è possibile recuperare il controllo razionale sulle passioni: “In statu naturae integrae, quantum ad sufficientiam operativae virtutis, poterat homo per sua naturalia velle et operari bonum suae naturae proportionatum, quale est bonum virtutis acquisitae: non autem bonum superexcedens, quale est bonum virtutis infusae. Sed in statu naturae corruptae etiam deficit homo ad hoc quod secundum suam naturam potest, ut non possit totum huiusmodi bonum implere per sua naturalia” (Summa Theologiae I-II, q. 109, a. 2). Per san Tommaso, Adamo fu fin dall’inizio dotato di grazia; ma è improbabile che Dante pensi questo, data la semplice presenza del timore iniziale o servile. Il richiamo dantesco al Paradiso terrestre, ove si possiedono in pieno le virtù naturali, quindi, rende necessario supporre l’assenza, almeno in una fase iniziale, delle virtù teologali, secondo la sentenza di san Bonaventura. “Quidam namque dicere voluerunt, quod homo fuit creatus non solum in naturalibus, verum etiam in gratuitis, tum propter Dei liberalitatem, tum etiam propter hominis idoneitatem. Sed quoniam Sanctorum auctoritates videntur sonare contrarium, ideo est alia opinio communior et probabilior, quod homo prius tempore habuit naturalia, quam haberet gratuita. Unde secundum hanc in statu innocentiae distinguuntur duo tempora: quoddam enim fuit tempus, in quo tantum habuit naturalia, quoddam vero in quo habuit et naturalia et gratuita” (In Sent. II, d. 29, a. 2, q. 2).

Questo brano è importante, fra l’altro, perché in esso compaiono temi cari a Dante. Innanzitutto il Dottore Serafico scrive: “Ordo sapientiae hoc requirebat, ut sicut esse gratuitum est alterius generis, quam esse naturale, sic in diversis temporibus homini conferretur: et sicut elementa mundi prius tempore fuerunt creata et distincta, quam ornata, propter ordinem sapientiae commendandum, sic etiam fieret circa hominem, qui est minor mundus”. Dopo l’ “ordo sapientiae”, che comprende l’argomento del “minor mundus”, c’è l’ “ordo bonitatis”, secondo il quale “gratia homini ordinate datur, quando datur ei secundum quod est utilior et fructuosior. Tanto autem gratia Dei est nobis utilior et fructuosior, quanto pro ea Deo gratiosiores existimus: et ideo sic debuit dari, ut ex ipso ordine dandi cognosceretur donum illud esse gratuitum: propterea non fuit a creatione indita, sed naturae jam perfectae et constitutae fuit superinfusa”. Il termine superinfusa, come è noto, occorre nel canto XV del Paradiso[4], a designare una grazia di tipo superiore concessa a chi già possiede la grazia ‘normale’, quella infusa in seguito alla giustificazione. Inoltre tale concessione presuppone la integrità naturale, che è privilegio sia di Adamo (prima della Caduta) sia di Dante (pur se conseguenza ultraterrena della restaurazione consentita dalla infusione delle virtù teologali), il quale, per godere di tale integrità o innocenza, dovette bagnarsi nel fiume Lete.

C’è poi, continua Bonaventura, l’ “ordo justitiae”: “Deus enim secundum legem communem requirit aliquam dispositionem et praeparationem a parte nostra, ad hoc quod infundat alicui gratiam, sive in eo cui infundit, ut in adulto, sive in alio adjuvante, secundum quod contingit in parvulo: et ideo gratia non fuit homini concreata, sed dilata fuit quousque homo per actum et usum rationis quodam modo se disponeret ad illam suscipiendam”. La grazia va preparata (sempre da Dio), perciò è indispensabile un lasso di tempo che ne preceda la concessione. Si ricorderà la conclusione del trattato politico: “Que quidem veritas ultime questionis non sic stricte recipienda est, ut romanus Princeps in aliquo romano Pontifici non subiaceat, cum mortalis ista felicitas quodammodo ad inmortalem felicitatem ordinetur” (III.xv.17). La felicità immortale è compimento e realizzazione di quella terrena, di cui l’Eden è prefigurazione. Il termine quodammodo non solo presume la necessità di una preparazione alla grazia (per via delle virtù cardinali), ma lascia in sospeso l’esito, giacché il passaggio alle virtù teologali, che garantiscono la salvezza, non è affatto scontato. Si può dunque comprendere il motivo della presenza del quodammodo: mentre il possesso delle virtù teologali garantisce la felicità eterna (e quindi la “beatitudo supernaturalis” è essenzialmente ordinata alla felicità che si avrà “in patria”), il possesso delle virtù cardinali (acquisite) ne è solo una distante (e non necessaria) precondizione, essendo indispensabile la cancellazione dello stato di aversio a Deo. Si tratta di un passaggio possibile (infusione delle virtù teologali), ma non necessario; se, come proposto da Bortolo Martinelli [5], il termine quodammodo riguarda la categoria della relazione, dunque il campo dell'accidentale, si può dire che la relazione tra “mortalis felicitas” e “inmortalis felicitas” costituisce per Dante un nesso contingente (al di fuori comunque della prescienza divina), tale cioè che può o non può realizzarsi. Tale realizzazione esige il passaggio di cui sopra, un passaggio che fu compiuto da Catone, ma non da Virgilio. In ogni caso è indispensabile una fase di attesa e preparazione alla infusione della grazia, come san Bonaventura, anche nel caso di Adamo, esplicitamente ammette.


[1]Ancora sul “quodammodo” …., in EBDSA, May 2005.

[2] Cfr. N. Fosca, “Il canto XX del Paradiso: giustizia e predestinazione”, in Studi danteschi, 79, 2014, pp. 219-23.

[3] Beatitudine terrena e Paradiso terestre, in EBDSA, January 2012.

[4] “Superinfusa gratia Dei”, in EBDSA, May 2014.

[5] In Miscellanea di studi in onore di V. Branca, Firenze, Olschki, 1983, I, p. 212.