Nicola Fosca
(Independent Scholar)
5 March 2011


Inf. II.96: “sì che duro giudizio là sú frange”

La donna gentile (con ogni probabilità Maria Vergine), constatata la tragica condizione in cui versa Dante, sul punto di naufragare definitivamente, interviene presso Dio, modificandone (frange: “spezza”, “infrange”) il duro giudizio di condanna. È evidente, nell’occasione, il coinvolgimento del tema della predestinazione. Nella prospettiva canonica, il decreto di salvezza o di riprovazione è pretemporale: “Elegit nos in ipso ante mundi constitutionem” (Ephes. 1.4). È assurdo ritenere che Dio ‘cambi idea’: “Deus autem absit ut temporaliter aliquem diligat, quasi nova dilectione quae in illo ante non erat, apud quem nec praeterita transierunt et futura iam facta sunt” (Agostino, De Trinitate 5.16). L’argomento delle cause seconde non è qui in questione, perché “divina providentia producit effectus per operationes causarum secundarum. Unde et id quod est per liberum arbitrium est ex praedestinatione” (Tommaso d’Aquino, Summa theologiae I, q. 23, a. 5). Si tratta di un problema molto serio, non molto discusso, in verità, dalla critica.

Il problema è in effetti evitato da Francesco da Buti: “… lo ordine della divina giustizia vuole che chi è in peccato sia privato della grazia di Dio. Questo è lo duro giudicio che molti chiamano fato, e questo si rompe quando Idio concede grazia all'uomo che riconosca il suo peccato e vogliane uscire”. Benvenuto non vede difficoltà: “Hoc dicit quia rigidum judicium Dei est, quod peccator puniatur secundum peccatum. Modo tale judicium revocatur nunc, intercedente gratia”. Alcuni commentatori moderni conferiscono a frange il senso di “tempera” (Tommaseo), “ammollisce” (Poletto) o “attenua” (Porena); il motivo basilare della predestinazione, però, risulta accantonato. La chiosa di Padoan pone in primo piano il concetto di “merito”: “piega, con la sua intercessione, la severa sentenza di Dio […]. Per i meriti che poterono raccomandare Dante cfr. Par. XXV.52-57”. Ma il merito, secondo la standard view, è variabile dipendente dell’intervento gratuito di Dio, per cui rimanda al principio della Sua volontà immutabile. “Quod est meritum hominis ante gratiam, quo merito percipiat gratiam, cum omne bonum meritum nostrum non in nobis faciat nisi gratia?” (Agostino, Epist. 194.19; cfr. Sent. II, d. 27, a. 5).

Conviene allora esaminare un altro modo di concepire l’immutabilità del giudizio divino, un modo che sia compatibile con l’idea centrale dantesca della irriducibilità del libero arbitrio, il massimo dono elargito da Dio agli uomini (Par. V.19): sulla autonomia assoluta della libertà di scelta è basato il merito come causa della salvezza (o dannazione). In sede teologica, questa impostazione è riscontrabile presso Bernardo di Chiaravalle, per il quale il merito è effetto del consenso dell’uomo all’offerta di grazia (De gratia et libero arbitrio, 45-46; cfr. Bonaventura, Breviloquium, 5.3); su questa linea, san Bonaventura afferma che Dio non conduce alla salvezza coloro che, nella sua prescienza, sa che declineranno l’offerta. “… est electio qua eligitur et separatur bonus a malo; et est electio qua separatur melior a minus bono. Haec secunda esset, si homo non peccasset; prima autem non esset, si homo non peccasset; non quia lapsus aliquid faciat ad rationem eligendi, sed praevisio lapsus. Et quamvis lapsus hominis fuerit temporalis, praevisio tamen eius fuit aeterna” (In Sent. I, d. 40, a. 3). In tal modo l’”electio”, la cui unica causa è per l’Aquinate l’imperscrutabile “dilectio” divina, viene a dipendere dalla prescienza. Bernardo distingue quattro tipi di giudizio (Sententiae, 3.54): “secundum praescientiam” (siamo stati giudicati ancor prima di venire al mondo); “secundum causam” (“iudicamur ex quo esse incipimus, quando boni vel mali sumus”); “secundum operationem” (siamo giudicati quando manifestiamo agendo quel che siamo all’interno); “secundum retributionem” (ricevendo il compenso per quanto di bene abbiamo fatto, ci conosceremo essere quali al cospetto di Dio fin dall’eternità siamo stati previsti). Di questi quattro giudizi, i primi due sono occulti alla ragione umana; tuttavia, “iudicium secundum praescientiam occultum est et immutabile, iudicium autem secundum causam occultum et mutabile”. Quindi, a detta del Chiaravallese, il giudizio “secondo la causa”, pur restando incomprensibile per l’uomo, si può modificare, cioè – possiamo dire – si può frangere.

Questo è possibile in bono, ovviamente, solo grazie alla misericordia di Dio (e di chi, come Maria Vergine, mater misericordiae, intercede presso di Lui) ed alla rigenerazione morale del peccatore, che abbandona l’aversio da Dio e si rivolge a Lui con amore. La chiosa di Singleton mette in rilievo proprio questo: ”The sinner otherwise would have remained in the darkness of sin and finally have been swept down to the ‘second death’ of Hell. Dante's own great devotion to the Virgin Mary is evident throughout the poem. How the Divine Will may be affected or changed by love is described in Par. XX.94-99”.

In queste due terzine si legge che “il Regno dei cieli sopporta (pate) violenza da un ardente amore e da una viva speranza, che vincono la volontà divina; ma non al modo in cui l’uomo sulla terra sopraffà (sobranza) un altro uomo, ma la violenza vince la volontà perché questa vuole essere vinta, e, vinta, vince a sua volta con la sua bontà (beninanza)”. Il poeta allude ad un noto passo evangelico: “Regnum coelorum vim patitur, et violenti rapiunt illud” (Mt. 11.12; cfr. Lc. 16.16). Ecco la sua esegesi standard da parte del Venerabile Beda: “Cum vero quis per superbiam tumidus vel carnis facinore pollutus, ad poenitentiam . . . redit et vitam aeternam percipit, quasi in locum peccator intrat alienum. Grandis namque violentia est nos, in terra generatos, posse regnum coelorum possedere per virtutem, quod non possumus per naturam”. Alcuni commentatori si rifanno a Francesco da Buti: “… due sono le voluntà in Dio: l'una è assoluta, e questa mai non si vince, ma ella vince tutto; l'altra è condizionata, cioè chè Iddio vuole che, se tu se’ infedele, sii dannato; ma potrà tanto amore in Dio essere in te e sì viva speranza, e in altre parti che Iddio vorrà che quella prima voluntà non si toglia, ch’ella sta pur ferma, che ogni infidele è dannato; ma vuole Iddio che si trovi modo che si torni all'ordine che non sia infidele; ma diventi fedele, e così sta sempre ferma la voluntà di Dio assoluta e condizionata”. Tuttavia il problema del decreto di predestinazione è eluso; la differenziazione tra i due tipi di volontà ha lo scopo, nell’ambito della standard view, di garantire sia la misericordia “antecedente” di Dio, che “vult omnes homines salvos fieri” (1 Tim. 2.4), sia la giustizia “conseguente” (“assoluta”), per cui Egli permette che alcuni pecchino irrimediabilmente.

Altro senso, però, ha tale distinzione presso Bonaventura, per il quale il desiderio di salvezza universale “connotat ordinationem naturae, sive naturam ordinabilem ad salutem”: questo è l’ambito della volontà antecedente. “Unde bene sequitur: ‘Vult istum salvari voluntate absoluta: ergo iste salvabitur’; nunquam enim vellet, nisi pariter praesciret eum esse salvandum” (In Sent. I, d. 47, a. un.). Al proposito Bernardo, discutendo di Ier. 1.5 (“Priusquam te formarem in utero, novi te”), aveva evidenziato il ruolo basilare della prescienza, in base alla quale la predestinazione esercita i propri effetti (cfr. Epist. 174.3, 107.4, 7). L’Aquinate, invece, separa nettamente la prescienza, che “importat solam notitiam futurorum”, dalla predestinazione, che “importat causalitatem quamdam respectu eorum”: “ponere quod aliquod meritum ex parte nostra praesupponatur, cuius praescientia sit ratio praedestinationis, nihil est aliud quam gratiam ponere dari ex meritis nostris, et quod principium bonorum operum est ex nobis” (In Rom., caput 8, lectio 6).

Il modo in cui prescienza e merito sono considerati da Bernardo (e, genericamente parlando, dalla ‘scuola francescana’) si connette strettamente alla concezione (condivisa da Dante) del libero arbitrio quale dote inalienabile dell’uomo e fondamento della sua stessa dignità. Tale approccio non nega certo l’onnipotenza di Dio, il quale potrebbe anche costringere l’uomo annientando la sua libertà; se lo facesse, però, priverebbe l’uomo insieme della sua natura, il che sarebbe contraddittorio (cfr. Bonaventura, In Sent. II, d. 25, p. 2, a. 1). “Non facit Deus quidquid potest, sed quod decet et quod congruit; et decens est, quod imprimat formam in materiam, sicut convenit formae et materiae suscipienti; et forma est iustitia, quae est libertatis; et materia similiter est voluntas libera, libera in agendo et recipiendo: et ideo non datur sine actu eius, cum quo nata est agere” (In Sent. IV, d. 17, p. 1, a. 1). Il libero arbitrio umano è intangibile, come quello di Dio. L’uomo, in quanto creato libero, può agire contro la volontà divina, di conseguenza ‘infrangendola’ e acquistando così merito o demerito. Infatti Dio “vult quod unusquisque habeat propriam libertatem et faciat quod vult. Unde et potentia faciendi contra divinam voluntatem est a divina voluntate; et ideo non esset potentior propter hoc” (In Sent. I, d. 47, a. un.).

“Quanti vincere nei versi di Par. XX !, annota Pietrobono; ma “il Poeta vuole con essi celebrare la vittoria che sola è degna di Dio e degli uomini: quella che si riporta con l'amore”. Si legga Bernardo: “Quid violentius? Triumphat de Deo amor. Quid tamen tam non violentum? Amor est. Quae est ista vis, quaeso, tam violenta ad victoriam, tam victa ad violentiam?” (In Cant. 64.10).