|
Nicola Fosca |
||||||
|
Santa Lucia, in Paradiso, avverte Beatrice che Dante, da poco uscito dalla selva oscura, sta per dannarsi (la morte spirituale), poiché egli è alle prese con un tempestoso corso d'acqua (fiumana) su cui il mare non ha vanto, ossia non prevale.
Si tratta di un passo assai discusso, a cominciare dall'attribuzione ad esso di un significato non solo metaforico (come appare a prima vista), ma anche letterale[1]. Si può dire che la lettura standard risalga a Boccaccio, per il quale la fiumana è un altro modo di simboleggiare la selva, cioè la vita quotidiana turbolenta e tanto tempestosa che neanche il mare può vantarsi di essere più impetuoso e pericoloso. In un articolo pubblicato nel 1948[2], C. S. Singleton non solo identificò la fiumana con la lupa e quindi col grave disordine interiore del pellegrino, ma fece notare come anche il mare rappresenti sovente, nella cultura medievale, la turbinosa vita umana. Mentre non hanno avuto seguito le proposte di identificare letteralmente il fiume con l'Acheronte o con l'Arno o con il Tevere, l’ipotesi di F. Villani e di A. Belloni (1905), che pensarono al Giordano (fiume non tributario del mare e vicino a Gerusalemme), è stata ripresa da J. Freccero[3], il quale, ricollegandosi a Singleton, ha affrontato la questione alla luce del modello dell'Esodo, secondo il quale tre sono i passaggi cruciali nel viaggio verso la Terra Promessa (verso la beatitudine): il Mar Rosso, il deserto, il Giordano. Ora, se dal punto di vista del pellegrino l'ostacolo consiste nella lupa, da quello di Lucia, che parla a Beatrice nella prospettiva celeste, esso consiste nella fiumana, che richiama perciò il Giordano in piena davanti ad Israele. Il superamento del Giordano è l'ultima fase del viaggio che conduce alla Terra Promessa: il Giordano è tradizionalmente un fiume di salvezza, ma ora costituisce un ostacolo, per superare il quale sarà necessario prima un bagno di umiltà, cioè la discesa all'inferno. Le argomentazioni di Freccero (che sono ben più complesse) non hanno generalmente persuaso la critica (per una sintesi dell’approccio ‘tipologico’ cfr. R. Hollander, comm. ad loc.). Per quanto ci riguarda, notiamo soltanto che l'ipotesi implica il riferimento al battesimo, circostanza che l'economia del viaggio dantesco sembra proprio escludere: infatti va tenuto presente che il pellegrino è un uomo battezzato (l'autore lo afferma nell'esordio di Par. XXV), di conseguenza possiede quel “carattere” che il battesimo (irripetibile) conferisce in maniera indelebile. L'itinerario ultraterreno sotterraneo è dunque un cammino verso la giustificazione del peccatore battezzato, verso cioè la “seconda (o nuova) giustificazione”, non verso la “prima giustificazione” (il battesimo)[4]. Nel nostro commento abbiamo argomentato nei seguenti termini. È necessario collegare il brano ad Inf. I.22-27, ove la situazione di Dante, uscito dalla selva, è paragonata a quella del naufrago che è scampato alla morte, ma ha perso il naviglio con cui attraversare il pelago, il mare. Allo stesso modo Dante ha perso la grazia di Dio: egli è riuscito ad uscire dalla selva, ma la sua corruzione si rivelerà presto, per cui egli dovrà invocare l'aiuto della grazia e ricorrere alla “seconda tavola dopo il naufragio”, cioè alla penitenza. L'unica via di salvezza è quindi quella di compiere la traversata del mare, della vita tempestosa e piena di tentazioni, facendosi sostenere in umiltà dalla grazia. In questo quadro, che senso ha l'affermazione di Lucia (la cui portata metaforica ben si connette alla natura della pseudo-similitudine del naufrago) per cui il mare non prevale sulla fiumana? Restando nella prospettiva del paragone, potremmo dire che la traversata del mare è impedita da questo tumultuoso corso d'acqua, che sembra riferirsi allo stato di corruzione del pellegrino, la cui ragione non controlla le passioni, che sono di conseguenza disordinate e prevaricanti. Con parole molto citate del Salmista, “torrentes iniquitatis conturbaverunt me” (17.5). Naturalmente termini come “fiume”, “torrente” hanno al tempo ampia estensione di significato; sembra tuttavia che un significato del genere si possa reperire anche in sant’Agostino, il quale, commentando Ps. 123, nota come acqua denoti “i popoli peccatori”, per poi precisare: “Sed qualis est ista aqua? Torrens est, fluit cum impetu, sed transitura est. Torrentes enim dicuntur fluvii qui repentinis imbribus crescunt: magnum habent impetum; quisquis incurrerit trahitur, sed in quo Dominus non est; in quo autem Dominus est, transit torrentem anima ipsius”[5]. Tuttavia neanche un simile approccio rende ragione della lettera del testo: il punto da spiegare è, infatti, quello del (mancato) vanto del mare. Sembra in effetti forzato assimilare tale punto al tema della mancata traversata. Proponiamo allora di assumere come testo di riferimento un passo dell’Ecclesiaste: “omnia flumina intrant mare et mare non redundat; ad locum unde exeunt flumina revertuntur ut iterum fluant” (1.7). Riccardo di san Vittore, nella sua esegesi (De statu interioris hominis, 1.10), evidenzia che la concupiscenza è simbolizzata proprio dal continuo fluire dei fiumi: “Appetitus carnis est abyssus illa magna unde exeunt tot flumina, unde tot surgunt et tam infinita desideria”. Quale la relazione con il mare? La relazione (oppositiva) sta nel fatto che l’acqua dei fiumi è dolce, mentre amara è quella del mare. In altri termini, i piaceri ed i blandimenti che la concupiscenza in prima istanza ci procura (i “fluctus blande cupiditatis” di Mon. III.XVI.11) si trasformano poi, inevitabilmente e sventuratamente, in sofferenze, in “amaritudines”. “Quid igitur est fluminis intrare in mare nisi omnem delectationem carnalem terminari in amaritudine?”. Così il dolce si fa amaro, “omnis delectatio carnis in amaritudine terminatur”. Cosa vuol dire allora che “mare non redundat”? È la giustizia suprema che trasforma ciò che prima dilettava in “flagellum”: “in omni afflictione nostra, in omni percussione sua, divina aequitas modum servat, quia in omni eo quod nos ad ultionem vel ad correctionem percutit, justitiae metas non excedit”. I dannati hanno in vita insistentemente cercato diletto in un modo moralmente erroneo, non si sono pentiti e di conseguenza subiscono la giustizia di Dio, la quale dà a ciascuno il giusto, ossia quanto egli ha meritato. In ossequio all’infallibile misura della giustizia divina, perciò, il mare non “redundat”, cioè non trabocca, non è sovrabbondante, insomma non ha vanto: “Mare non redundat, quia malitiae nostrae meritum miseriae nostrae quantitas non exsuperat”. Il luogo dove il mare “non exsuperat”, non ha vanto, è quindi il luogo in cui il protagonista è sul punto di precipitare. Grazie alla contrizione ed all’aiuto divino, egli non vi precipiterà, essendo spinto da necessità (di “contemplare il male, per aborrirlo, convertirsi e salvarsi”: Berthier), non da diletto (Inf. XII.87)[6]. Così, l’incidenza di Riccardo appare consistente, se si pensa che il poeta avrebbe potuto averlo presente, come ‘esegeta biblico’, anche nel comporre la “scena del prologo”. Sappiamo infatti che il protagonista è immediatamente presentato come peccatore. Al proposito, pare assai appropriato un passo di Isaia: “Omne caput languidum, et omne cor moerens a planta pedis usque ad verticem non est in eo sanitas”(1.5-8). Si tratta, commenta Riccardo, della descrizione generica del peccatore, che non gode del sostegno della grazia: la testa rappresenta il “liberum arbitrium”, il cuore il “consilium”, il piede il “carnale desiderium”. “Caput toti corpori supereminet, et liberum arbitrium omni actioni praesidet. Cor medium et intimum locum tenet, et salubre consilium vix de occulto erui, et in secreto inveniri valet. Pes in imo jacet, et carnale desiderium per appetitum infimis inhaeret” (1.2)[7]. Ora, il testo poetico, prima di narrare l’apparizione delle tre fiere, fa chiaro riferimento sia al capo sia al cuore sia al piede: infatti l’Eroe è “pien di sonno” (I.11), il che rinvia alla “testa” (IV.1), è ricolmo di paura nel “lago del cor” (I.20), ed infine il suo “pié fermo” è sempre “il più basso” (I.30). Su tale falsariga, si può dire che Dante, all’inizio dell’avventura, non ha il libero arbitrio sano, il che implica un’afflizione angosciosa (moeror) che impedisce di prendere la decisione corretta (il viaggio penitenziale) e determina la soggezione alla concupiscenza. “Caput ergo languet, quia liberum arbitrium ad omne bonum torpet; cor moeret, quia malum quod patitur, consilium sicut nec ignorare sic nec dissimulare valet; pes cum toto corpore dolet, quia concupiscentiae malum undique fervet. Capitis languorem ostendere nobis voluit, qui dixit: Sine me nihil potestis facere (Io. 15.5)” (1.11).
[1] Una rassegna molto accurata (fino a metà degli anni ’60) è stata compiuta da F. Mazzoni, Saggio di un nuovo commento alla “D.C.”: “Inferno” canti I-III, Firenze, Sansoni, 1967, pp. 294-303. [2] In Romanic Review, pp. 269-277. [3] In un articolo del 1966, The River of Death (poi in Dante. The Poetics of Conversion, Harvard UP, 1986, cap. III). [4] Si veda ad esempio il nostro commento (DDP, 2003) a Inf. I.65. [5] Enarr. in Ps. 123.6-7. Mazzoni cita un brano affine: Enarr. in Ps. 65.11. [6] Cfr. il nostro commento a Inf. XXVIII.142. [7] Il passo è stato posto in rilievo da A.K. Cassell, Inferno I, Pennsylvania UP, 1989, p. 35. |
||||||