Nick Fosca
(unaffiliated scholar, Turin)
3 May 2010


Purg. VII.52: “… in terra fregò ’l dito”

Nell’Antipurgatorio, Sordello espone la ‘legge’ per cui non è possibile ascendere il sacro monte in mancanza della luce solare (Io. 12.35: “ambulate dum lucem habetis”; Io. 9.4: “Venit nox, quando nemo potest operari”). Unanime al riguardo la critica: non è possibile procedere nella purificazione senza la luce della grazia divina (“in die mandavit Dominus misericordiam suam”: Ps. 42.8). Il giusto procede nella luce (“Iustorum semita quasi lux splendens procedit”: Prov. 4.18), ed il suo procedere vuol dire progredire “di bene in meglio”, come spiega l'Aquinate: “... homo in die ambulat, non in nocte. Unde dicitur Io. 11.10: Qui ambulat in nocte offendit. Et ideo, quia dies est, oportet quod ambulemus, id est de bono in melius procedamus. Unde dicit Io. 12.35 ...” [1]. Tuttavia Virgilio chiede da dove provenga l'impossibilità di dar luogo, di notte, all'ascesa: se dall'impotenza in sé (mancanza di forze) del viandante oppure da una persona o forza esterna. E Sordello risponde facendo capire che la salita ha luogo in virtù della grazia divina (la luce), per cui, tolta la forza motrice del procedere, viene meno anche la volontà:

E ‘l buon Sordello in terra fregò ‘l dito,
dicendo: «Vedi? sola questa riga
non varcheresti dopo ‘l sol partito:
non però ch’altra cosa desse briga,
che la notturna tenebra, ad ir suso;
quella col non poder la voglia intriga. (Purg. VII.52-57)

È oggi prassi normale, da parte degli studiosi, fare in questa occasione riferimento allo ‘strano’ gesto compiuto da Gesù nel rispondere a coloro che gli avevano condotto una donna adultera, come narra l’evangelista Giovanni: “Jesus autem inclinans se deorsum digito scribebat in terra … Dominus iterum se inclinans scribebat in terra” (8.6, 8)[2]. Possiamo leggere come Denise Heilbronn ponga in relazione la risposta di Cristo agli accusatori della donna adultera e la ‘lezione’ di Sordello sulla ‘legge’ in questione: “… At first, there would seem to be no direct connection between Christ’s mysterious answer to the accusers of the adulteress and Sordello’s lesson on the rule governing ascent in Purgatory. However, on reading a few lines further in John, ch. 8, one realizes that the text from which Sordello’s gesture is derived expresses the theme of light and darkness ... as Christ says of Himself: ‘I am the light of the world. He who follows me does not walk in darkness, but will have the light of life’ (12)”. In tal modo “Sordello ‘imitates’ Christ in an action which, on the literal plane, illustrates the point he wishes to convey to Virgil and the Pilgrim. But at the same time, when understood symbolically, his gesture reminds the reader that the light which illuminates the way of men to God on the mountain – as in this life – is Christ”[3].

Se prendiamo in esame autorevoli commentatori del testo giovanneo, possiamo constatare che una chiosa esauriente ed oltremodo interessante è quella del Venerabile Beda: “Jesus autem inclinans se deorsum digito scribebat in terra. Per inclinationem Jesu, humilitas: per digitum, qui articulorum compositionem flexibilis est, et subtilitas discretionis exprimitur. Porro, per terram cor humanum, quod vel bonarum vel malarum actionum solet reddere fructus, ostenditur”[4]. Si tratta quindi di un invito ad essere umili nel giudicare, esaminando con discrezione la propria coscienza. Beda estende di molto il commento di sant’Agostino, incentrato comunque proprio sulla necessità dell’esame di coscienza: “Consideret se unusquisque vestrum, intret in semetipsum, ascendat in tribunal mentis suae, constituat se ante conscientiam suam, cogat se confiteri”[5].

Sordello “imita” dunque Cristo, il quale “repellit adversarios sua sapientia”. Sono parole dell’Aquinate, per il quale la linea tracciata a terra si riferisce alla Nuova Legge: “Terra autem mollis est. Ut ergo signaret dulcedinem et mollitiem novae legis per eum traditae, in terra scribebat”[6]. Ma le parole di Sordello, accompagnate dal gesto ‘mimetico’, sono rivolte a Virgilio, il quale poco prima (VII.25-27) aveva dichiarato di aver perso la contemplazione di Dio (a veder l'alto Sol)nonper aver compiuto del male (per far), ma per non aver compiuto del bene (per non fare). Il saggio pagano insiste sul fatto di aver conosciuto Dio troppo tardi, cioè dopo la morte, quasi a scusare con l'ignoranza del messaggio cristiano la propria dannazione. Si noti che egli, contrapponendo fare e non fare, non sembra rendersi conto che il non praticare il bene equivale a fare, e per la precisione a fare male, cioè ad agire non in nome ed in vista di Dio: ancora una volta Virgilio mostra di non aver ben compreso le ragioni della propria condanna, probabilmente perché si limita a concepire il peccato come violazione della “misura della ragione” e non, in primo luogo, come mancata sottomissione con amore a Dio[7]. Il Cristiano perfetto deve evitare il male e compiere il bene, cioè agire in spirito di carità: non a caso il compimento del processo di purgazione, nell'Eden, consiste nel bere le acque del fiume Lete (donde l'oblìo delle cattive azioni compiute) e del fiume Eunoé (donde l'acuirsi del ricordo delle buone azioni compiute).

La ‘lezione’ di Sordello, se da una parte evidenzia l’indispensabilità della Grazia, dall’altra ci ricorda come fondamento della legge cristiana sia l’umiltà, di cui però solo chi è giustificato è in pieno possesso. È in base all’umiltà che dobbiamo formulare ogni giudizio morale, soprattutto di carattere introspettivo, volto ad esaminare noi stessi, a capire qualità e “frutti” delle nostre azioni. La ‘lezione’ costituisce perciò denuncia dello status morale di Virgilio: il vate latino, ribellante a tale legge, morì in condizione di aversio a Deo, di conseguenza, pur essendo riuscito in vita ad evitare la conversio ad bonum commutabile, resta preda della superbia, per cui non riesce ad eseguire un’analisi coscienziosa (‘discreta’) di sé stesso. Ovviamente si tratta della superbia come initium omnis peccati (Ecclus. 10.15), non come vizio capitale: “… è da sapere che superbia, considerata largamente, è non volere sottomettersi a Dio. E per questo modo superbia è inizio di tutti li peccati: imperò che ogni peccato, secondo che dice Agostino, è dipartimento da Dio e convertimento alla creatura, e partirsi da Dio altro non è che non sottomettersi a Dio; adunque è inizio di tutti i peccati. Ma superbia, presa strettamente, è immoderato amore di propria eccellenzia”[8].

L’intervento di Sordello, che pure aveva esaltato Virgilio come maestro nell’uso della lingua nostra (VII.17), giunge a proposito: la guida, che nel corso della discussione con il trovatore lombardo non parla mai del vero motivo del viaggio ultraterreno, aveva in precedenza dichiarato: … per null'altro rio | lo ciel perdei che per non aver fé (VII.7-8). Queste parole, scrive Dino S. Cervigni, equivalgono a: “Io non commisi alcun reato e perdei il cielo perché non ebbi la fede”; il saggio pagano, in altri termini, “afferma di non essere colpevole: affermazione, questa, che corrisponde a una dichiarazione d'innocenza”[9]. Possiamo dunque dire, in definitiva, che Virgilio è privo del “digitus discretionis”: pecca comune ai dannati. Il gesto di Sordello “reminds the reader that the light which illuminates the way of men to God ... is Christ”, “quia et ipsum credere in Christum opus est Christi”; ma “hoc operatur in nobis, non utique sine nobis”[10].


[1] Super Ep. ad Rom., cap. 13, lectio 3.

[2] Vedasi p. es. B. Martinelli, “Canto VII”, in P. Giannantonio (a cura di), Lectura Dantis Neapolitana: “Purgatorio”, Napoli, Loffredo, 1989, pp. 163-66.

[3] «Dante’s Valley of the Princes», in Dante Studies, 1972, p. 48.

[4] In Io. Ev. Expositio, 92.735C (Migne).

[5] In Io. Ev. Tractatus,33.5.

[6] Super Io., cap. 8, lectio 1.

[7] Vedasi il nostro commento (DDP, 2003) a Inf. IV.34-42.

[8] Francesco da Buti, ad Inf. IX.106-123.

[9] «Il triplice Io nel Purgatorio VII», in The Italianist, 1993, p. 15.

[10] Beda, Op. cit., 92.825A.