Nick Fosca
(Independent Scholar)
25 May 2014

“Superinfusa gratia Dei” (Par. 15.28-29)


O sanguis meus, o superinfusa
gratïa Deï, sicut tibi cui
bis unquam celi ianüa reclusa? (Par. 15.28-30)

Con queste parole Cacciaguida accoglie Dante nel Paradiso. Limitiamo la nostra attenzione all’espressione superinfusa, normalmente definita “di conio dantesco”[1]. In realtà, non è così: qualche occorrenza sparsa è rilevabile, anche in san Tommaso, ma specialmente presso san Bonaventura, che la utilizza per registrare una situazione di grazia eccezionale, dovuta a qualcuno che già gode di una condizione privilegiata. Tale è in primo luogo il caso di Adamo, che godé di tale grazia in aggiunta alla situazione di perfezione naturale.


“Quidam namque dicere voluerunt, quod homo fuit creatus non solum in naturalibus, verum etiam in gratuitis, tum propter Dei liberalitatem, tum etiam propter hominis idoneitatem. Sed quoniam Sanctorum auctoritates videntur sonare contrarium, ideo est alia opinio communior et probabilior, quod homo prius tempore habuit naturalia, quam haberet gratuita. Unde secundum hanc in statu innocentiae distinguuntur duo tempora: quoddam enim fuit tempus, in quo tantum habuit naturalia, quoddam vero in quo habuit et naturalia, et gratuita. Secundum diversitatem hujus duplicis temporis, dissolvitur apparens contrarietas in auctoritatibus Sanctorum: nam quaedam videntur dicere quod homo habuit gratiam quaedam vero quod non, et utraeque verum dicunt pro diversis temporibus. Ratio autem, quare Dominus voluit post naturalia dare gratiam, cum posset dare simul, sumitur ex triplici ordine, videlicet ab ordine sapientiae, bonitatis, et justitiae. Ordo sapientiae hoc requirebat, ut sicut esse gratuitum est alterius generis, quam esse naturale, sic in diversis temporibus homini conferretur: et sicut elementa mundi prius tempore fuerunt creata et distincta, quam ornata, propter ordinem sapientiae commendandum, sic etiam fieret circa hominem, qui est minor mundus. Ordini etiam bonitatis hoc competebat; hoc enim ordine dicitur aliquid ordinari in suum finem: tunc igitur gratia homini ordinate datur, quando datur ei secundum quod est utilior et fructuosior. Tanto autem gratia Dei est nobis utilior et fructuosior, quanto pro ea Deo gratiosiores existimus: et ideo sic debuit dari, ut ex ipso ordine dandi cognosceretur donum illud esse gratuitum: propterea non fuit a creatione indita, sed naturae jam perfectae et constitutae fuit superinfusa. Ordo etiam justitiae hoc requirebat: Deus enim secundum legem communem requirit aliquam dispositionem et praeparationem a parte nostra, ad hoc quod infundat alicui gratiam, sive in eo cui infundit, ut in adulto, sive in alio adjuvante, secundum quod contingit in parvulo: et ideo gratia non fuit homini concreata, sed dilata fuit quousque homo per actum et usum rationis quodam modo se disponeret ad illam suscipiendam” (In Sent. II, d. 29, a. 2, q. 2).

Nello stato di innocenza, così, la grazia è superinfusa nei confronti di uno stato di effettivo privilegio. Le cose cambiano dopo il peccato, quando il recupero (la reparatio) è difficile, ma soprattutto è impossibile che un uomo vivo ottenga la condizione di “giustizia originale”. Ciò è evidenziato dal poeta con il richiamo alle quattro virtù, le quattro stelle che rappresentano le quattro virtù cardinali e furono viste solo dai primi abitatori del Paradiso terrestre, cioè Adamo ed Eva[2]. Questa è l’esegesi standard, che risale a Buti, anche se il frate pisano scinde “fizione letterale” e “fizione poetica e morale”: “dice di quelle 4 stelle che non funno mai vedute, nè cognosciute se non da’ primi padri Adamo et Eva, mentre stetteno in stato d’innocenzia, perché stetteno in paradiso che è nell’altro emisperio sì, che secondo la fizione litterale le doveano vedere; ma secondo la fizione poetica e morale, la prima età che fingeno essere stata sotto Saturno, vidde e cognove queste 4 virtù et osservò benché non perfettamente; et a questo modo intese l’autore”. Secondo Benvenuto, il sintagma prima gente denota gli antichi virtuosi, coloro che, come Virgilio, si sono fregiati delle virtù cardinali (acquisite) ed hanno residenza eterna nel Limbo; opinione che, se accolta, costringerebbe a collocare fra tali “antichi” uomini vissuti (come p. es. il Saladino) in un’epoca assai vicina a quella di Dante. Per fornire una spiegazione adeguata del passo, è necessario ritenere che le stelle rappresentino non semplicemente le virtù cardinali, ma quelle “infuse” (che presuppongono l’infusione della carità), e non semplicemente le virtù cardinali infuse di cui qualsiasi individuo assolto dai peccati può fregiarsi, ma quelle di cui furono in natura dotati Adamo ed Eva: dopo che i nostri progenitori furono cacciati dal Giardino, cioè dopo il peccato originale, nessun uomo le ha viste (ossia possedute in quella forma). Nell’emisfero boreale, quello abitato, un uomo giustificato ottiene tutte le virtù (anche quelle cardinali, quindi) per infusione, per cui queste virtù a cui il poeta allude ora non possono che designare le virtù cardinali possedute da Adamo, cioè facenti parte della condizione di giustizia originaria (o vera innocenza) precedente la colpa d’origine. Tale giustizia era caratterizzata non soltanto dal possesso di tutte le virtù (e dei doni dello Spirito Santo) e dal dominio della ragione, sottomessa a Dio, sulle facoltà sensibili, ma anche dalla mancanza di quei vulnera naturae (ignorantia nell’intelletto, malitia nella volontà, concupiscentia nell’appetito concupiscibile e infirmitas nell’appetito irascibile) che neanche il battesimo può cancellare e che solo nella vita beata ultraterrena scompariranno. Lo stato di giustizia originaria è lo stato del posse non peccare, che sarà addirittura migliorato dallo stato dei beati, quello del non posse peccare (e dopo il Giudizio, lo stesso corpo sarà ‘spiritualizzato’: 1 Cor. 15.44). Il punto essenziale della situazione (l’essere le quattro virtù dotazione della giustizia originaria adamitica) è ben colto dal Vellutello: “Se queste quattro stelle sono vicine al polo antartico, non possono esser vedute se non da quelli de l’altro hemisferio, ma fingendo il Poeta l’altro hemisferio inhabitato, come vedemmo nel ventesimosesto canto de l’Inferno, in persona d’Ulisse, seguita che non sieno, come dice, state mai vedute fuor che a la prima gente, intesa per li nostri primi parenti, iquali, mentre che furon in stato di gratia, habitaron il Paradiso terrestre finto da lui ne l’altro hemisferio, sopra il monte del Purgatorio. E moralmente non viste mai fuor, che a la prima gente perché, intendendo queste quattro stelle per le quattro virtù morali, nessuno perfettamente si vestì mai di quelle che li primi parenti, iquali soli furono creati da Dio in stato di gratia, e non in stato defettivo, come noi altri discesi da loro, rispetto al peccato originale”.

In tal modo Dante, unica persona viva (neanche san Paolo potè tanto), spicca il volo verso il Cielo. Per questo egli può usufruire di privilegi eccezionali quali la penetrabilità corporea o la stessa capacità di volare verso l’alto, per non parlare della abilità sensoriale stessa, vieppiù crescente. Ha insistito sul tema Singleton, il quale pone in evidenza il fatto che il poeta rappresenta le virtù cardinali infuse nel duplice aspetto di ninfe e di stelle: infatti Beatrice, sulla cima del monte purgatoriale, apparirà in processione trionfale accompagnata da quattro fanciulle, che inequivocabilmente simboleggiano le virtù cardinali. Esse dicono di sé: Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle (Purg. 31.106). Ma, poiché le quattro fanciulle sono vestite di un colore che è una gradazione di rosso (colore della carità) e vengono assieme ad altre tre fanciulle che simboleggiano le virtù teologali, esse non possono essere che virtù cardinali infuse. “Esse rappresentano le quattro virtù cardinali, informate della carità. Dovremo pertanto intendere, in base alla identità da loro affermata, che le quattro stelle del cielo dell’Eden siano anch’esse virtù infuse. È senza dubbio questo il motivo per cui, quando appaiono, sono chiamate sante[3]. Sennonché il momento in cui il pellegrino, uscito dalle acque purificatrici del Lete, viene accolto dalle quattro ninfe è per Singleton il momento della sua giustificazione; ma tale interpretazione è – come abbiamo sottolineato[4] – insostenibile. Del resto, se si trattasse del momento della giustificazione, sarebbe incoerente affermare che la contemplazione delle stelle, che coincidono con le ninfe, è interdetta agli abitatori dell’emisfero boreale, i quali possono benissimo ottenere la giustificazione e raggiungere la giustizia personale cristiana. Per evitare l’impasse, Singleton suppone l’esistenza di una sostanziale differenza tra ninfe e stelle, per cui solo le seconde simbolizzerebbero le virtù connesse allo stato di giustizia originale. Tale differenzazione non gode però di sostegno testuale, per cui ci pare necessario non scindere stelle e ninfe dal motivo dell’innocenza: ed allora, se l’immersione nel Lete (comune a Dante ed alle altre anime che hanno terminato l’espiazione dei vizi capitali) fa acquistare l’innocenza portando a perfezione il risanamento, l’accoglienza del pellegrino da parte delle ninfe (a lui esclusivamente riservata) sta a significare che la sua è l’innocenza di chi ha il peso del corpo e prelude quindi ad una rigenerazione che, a differenza di quella delle altre anime purganti, coinvolge anche il corpo.


[1] D. Sbacchi, La presenza di Dionigi Areopagita nel Paradiso di Dante, Firenze, Olschki, 2006, p. XVIII.

[2] … e vidi quattro stelle | non viste mai fuor ch’a la prima gente (Purg. I.23-24).

[3] C. S. Singleton, La poesia della “Divina Commedia”, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 318.

[4] Cfr. il nostro commento al Purgatorio 31.103-108, e inoltre lo studio di Antonio Mastrobuono, Dante’s Journey of Sanctification, Washington, DC: Regnery Gateway, 1990.