Nicola Fosca
(Independent Scholar)
28 May 2013


Par. 7.112: “Né tra l'ultima notte e 'l primo die”

Beatrice, nel cielo di Mercurio, parla del processo della redenzione, la quale fu possibile grazie all’avvento di Cristo e costituì un atto di giustizia e misericordia. L’Incarnazione e la Passione consentirono all’uomo di soddisfare Dio per l’offesa arrecata dai protoparenti: in virtù del volontario sacrificio di Cristo, quindi, l’uomo può evitare la dannazione eterna. Si tratta di un’opera meravigliosa, anzi della più meravigliosa opera divina:

Né tra l'ultima notte e 'l primo die
sì alto o sì magnifico processo,
o per l'una o per l'altra, fu o fie.
(Par. 7.112-114)

L’esegesi della critica è unanime: nessun evento fu o sarà così magnifico tra la fine del mondo (ultima notte) e il primo giorno (die) della creazione, cioè per tutta la durata del tempo. L’utilizzo dello ýsteron próteron non è procedura rara in Dante (cfr. p. es. Purg. 15.2); in questo caso alcuni studiosi si rifanno al commento di Tommaseo, per il quale il verso “fa d’un volo trascorrere dall'ampia foce ove i secoli mettono nell’eternità all’alta fonte delle origini prime nel mondo”, ma non manca chi parla di semplici esigenze di rima (Porena). Come notato da Poletto, il termine magnifico è usato, in identico contesto, da san Bernardo: “in hoc quoque tam magnifico opere suo, nostrae videlicet reparationis, …” (Sermones in laudibus Virginis Matris, 2). Registriamo che, per san Bonaventura, l’Incarnazione costituisce “opus magnificum et beneficium infinitum” (Sermones in nativitate Domini, 2).

Bisogna comunque precisare che, secondo i Maestri di teologia, l’opera eccelsa di Dio consiste nell’Avvento, ma perché esso rende possibile la giustificazione: Tommaso d’Aquino afferma, nel sermone Ecce Rex, che “nessuna opera è meravigliosa (mirabile) quanto la venuta di Cristo nella carne”, ma specifica: “Niente gioverebbe a noi che Cristo sia venuto nella carne se di conseguenza non venisse anche nella mente, cioè santificandoci”. Il punto di riferimento è la dottrina del “triplice Avvento”, associata al nome di san Bernardo: “in primo venit in carne et infirmitate; in medio in spiritu et virtute; in ultimo in gloria et maiestate” (Sermones in Adventu Domini, 5.1). Se il primo, irripetibile, fu storicamente determinato, il secondo, quello “nella mente”, è occulto e quotidiano: “sicut ad operandam salutem in medio terrae venit semel in carne visibilis, ita quotidie ad salvandas animas singulorum in spiritu venit et invisibilis” (Ivi, 1.10). Leggiamo ancora nell’Ecce Rex: “In primo adventu venit solum filius. In secundo adventu venit filius cum patre ad inhabitandum animam. Per istum adventum qui est per gratiam iustificantem, anima liberatur a culpa”.

Anche se l’Aquinate articola diversamente la dottrina, è tuttavia principio fondamentale che l’opera divina più alta è quella della “giustificazione dell’empio”. Il motivo paolino del valore superiore della giustificazione, anche rispetto alla Creazione, è ripreso da sant’Agostino: infatti il cielo e la terra passeranno, mentre la salvezza e la giustificazione rimangono in eterno (salus et iustificatio permanebit: In Io. 72.3). Il Dottore Angelico sviluppa il tema “… iustificare impium dicitur maius quam creare caelum et terram, inquantum ad nobilius esse perducitur quis per iustificationem quam per creationem; vel inquantum in creatione non est aliquid quod repugnet creanti, cum sit ex nihilo, sicut in iustificatione repugnat iustificanti inordinata voluntas. Unde quamvis opus iustificationis potentiam manifestet, specialiter tamen commendat bonitatem, inquantum ipsa est sola quae ad iustificandum movet, cum ex parte iustificandi magis inveniatur quod iustificationi repugnet” (In Sent. IV, d. 46, q. 2, a. 1, qc. 3). Cristo, in effetti, compie due generi di opere: in uno agisce senza l’uomo, nell’altro agisce nell’uomo (“in nobis, sed non sine nobis”), cioè coinvolgendo il libero arbitrio: “Unum sine nobis, videlicet creare caelum et terram, suscitare mortuos, et huiusmodi; aliud operatur in nobis, sed non sine nobis: quod est opus fidei, per quod vivificatur impius”. […] Et hoc est opus quod facit Christus in nobis, sed non sine nobis; quia eadem facit quicumque credit: quia quod fit in me per Deum, fit in me etiam per meipsum, scilicet per liberum arbitrium” (Super Io., cap. 14, lectio 3). E il Dottore Serafico: “illud dicitur maius, salvo libero arbitrio, quia hic ex parte liberi arbitrii est resistentia, ibi nulla” (In Sent. IV, d. 10, p. II, a. 1, q. 1). Mentre l’opera della creazione “non respicit materiam recipientem”, “iustificare respicit materiam subiectam, et ideo non tantum respicit efficientem causam, verum etiam formalem” (Ivi, d. 17, p. I, a. 1, q. 1). La Passione presuppone l’identità di volere tra Padre e Figlio; ma la giustificazione comporta il mutamento della volontà, cioè la conversione. Cristo si consegnò alla morte sia come uomo sia come Dio: “Christus, secundum quod Deus, tradidit semetipsum in mortem eadem voluntate et actione qua et pater tradidit eum. Sed inquantum homo, tradidit semetipsum voluntate a patre inspirata” (Tommaso, Summa theologiae III, q. 47, a. 3).

Dal punto di vista dell’Avvento “nella mente”, quindi, ultima notte e primo die non possono designare estremi temporali precisamente (‘storicamente’) determinati. Bernardo scrive che l’avvento di Cristo, sol iustitiae (Mal. 3.20; cfr. Agostino, Enarr. in Ps. 25(II).3), è “sicut lux quae in tenebris lucet” (In Adventu Domini, 1.6): ogni volta che un peccatore è assolto, la luce della grazia dissipa le tenebre del peccato. Da tale punto di vista, in conseguenza, non sussiste al v. 112 inversione cronologica dei termini, dato che la luce divina è successiva alla notte del peccato; ma soprattutto, si è in grado di rendere pienamente conto della magnificenza del processo, cioè della giustificazione, evento che la Passione rende possibile, ma non necessario. Si noti che il sintagma primo die possiede duplice significato nell’inno (del Breviario Romano) In dominicis ad matutinum tempore hyemali, attribuito a Gregorio Magno: “Primo die, quo Trinitas | beata mundum condidit, |vel quo resurgens Conditor | nos, morte victa, liberat”.

Nel Liber de Verbo incarnato, che molto deve all’anselmiano Cur Deus homo? (la cui cristologia è riconosciuta anche come fondamento della dottrina dantesca), Riccardo di san Vittore scrive: “Dall’ora stessa della prima trasgressione fino a Cristo, tutti erano nella notte, e non riuscivano a trovare la strada del ritorno in patria, la porta per entrare nella vita”(13). L’argomentazione è relativa ad Is. 21.11-12: “Sentinella, quanto resta della notte? La sentinella risponde: Viene il mattino, poi anche la notte; se lo volete, cercate; convertitevi, venite!”. Allora il Signore dice: Venit mane. È la risposta desiderata. Egli è “la luce del mondo” (Io. 8.12), il sole di giustizia che tutti illumina. Perciò, afferma Riccardo, “inchoatio verae lucis est adventus nostris Salvatoris. Oriente namque sole iustitiae, inchoatur verum mane”.

Nella prospettiva del “secondo Avvento”, quindi, il primo die si riferisce all’inizio della vita in stato di grazia, la vera vita dell’anima, “abitata” dallo Spirito. Ma quale il denotato di ultima notte? In entrambi i casi sono in questione stati e mutamenti spirituali, i quali esulano dal tempo misurato in base al movimento celeste; però, scrive l’Aquinate, “tempore mensurantur non solum quae sunt per se in tempore, sicut est motus caeli, sed etiam ea quae habent per accidens ordinem ad motum caeli, in quantum consequuntur ex aliquibus quae per se habent ordinem ad tempus praedictum. Et sic etiam est in iustificatione impii, quae consequitur ex aliquibus cogitationibus, locutionibus, et aliis huiusmodi motibus, qui per se mensurantur tempore motus caeli” (De Veritate, q. 28, a. 2). Dio, infatti, infonde la grazia giustificante, ma anche predispone il soggetto a riceverla: “Deus ad hoc quod gratiam infundat animae, non requirit aliquam dispositionem nisi quam ipse facit. Facit autem huiusmodi dispositionem sufficientem ad susceptionem gratiae, quandoque quidem subito, quandoque autem paulatim et successive (Summa theologiae I-II, q. 113, a. 7). Così l’infusione, “cum sit in instanti, est terminus cuiusdam continui utpote actus meditationis, per quam affectus disponitur ad gratiae susceptionem; et eiusdem motus terminus est remissio culpae, quia ex hoc ipso culpa remittitur quod gratia infunditur. In illo ergo instanti est primo terminus remissionis culpae, scilicet non habere culpam, et infusionis gratiae, scilicet habere gratiam”. Ne consegue che “in toto ergo tempore praecedenti quod terminatur ad hoc instans, quo tempore mensurabatur motus meditationis praedictae, fuit peccator habens culpam et non habens gratiam, nisi tantummodo in ultimo instanti, ut dictum est. Sed ante ultimum instans huius temporis non est accipere aliud immediate proximum: quia quodcumque instans accipiatur aliud ab ultimo, inter ipsum et ultimum erunt infinita instantia media” (De Veritate, q. 28, a. 2). Perciò non è possibile indicare l’ultimo istante in cui si è ancora in colpa, per cui in questo caso si può solo parlare di “ultimum tempus”; questo periodo temporale, di varia durata per ogni anima, è moralmente tenebroso, ma non è semplicemente notte, giacché riguarda la fase preparatoria all’infusione della grazia: è piuttosto ultima notte.

Nell’ottica del “primo Avvento”, dunque, ultima notte e primo die denotano gli estremi cronologici (con ýsteron próteron); nell’ottica del “secondo Avvento”, invece, i due sintagmi designano fenomeni, come dice Tommaso, “spirituales”, pur se non privi, “per accidens”, di riferimenti cronologici. Infatti essi riguardano l’evento più importante della vita di ogni uomo, l’infusione istantanea della gratia gratum faciens. Affinché l’evento si compia, è naturalmente necessario rispondere positivamente all’invito della sentinella: “convertitevi, venite!”.