Nicola Fosca

6 June 2009

Dante da Lia a Rachele

Nel suo ultimo sogno Dante, ormai in procinto di entrare nel Paradiso terrestre, vede una bella giovane raccogliere fiori e farsene una ghirlanda: ella dice di chiamarsi Lia e di avere una sorella di nome Rachele, la quale non distoglie mai lo sguardo da un miraglio (Purg. XXVII.94-108).

Si legge nella Bibbia (Gen. 29-30) che Giacobbe, recatosi alla casa dello zio Labano, promise a questi di servirlo per sette anni affinché gli concedesse in moglie Rachele, la sua figlia minore; tuttavia, passati i sette anni, Labano gli diede in sposa Lia, la figlia maggiore. Labano promise comunque a Giacobbe che, in cambio di altri sette anni di servizio, gli avrebbe concesso Rachele, il che poi avvenne. Tradizionalmente, da Agostino a Gregorio Magno a Tommaso d'Aquino, Lia (non bella ma feconda) è simbolo della vita attiva, Rachele (bellissima ma sterile) è simbolo della vita contemplativa. Nel Convivio (IV.xvii.10-12) Dante specifica che, mentre la vita attiva è “buona”, quella contemplativa è “ottima”: questa prefigura infatti la felicità celeste, quando gli eletti contempleranno Dio facie ad faciem. La beatitudine suprema, che si avrà solo in patria, è ovviamente superiore a quella terrena, sia questa “quasi imperfetta ne la vita attiva”, sia “perfetta quasi ne le operazioni de le intellettuali” (Conv. IV.xxii.18). “Come elemento primario appartiene alla vita contemplativa la contemplazione della verità divina: infatti tale contemplazione è il fine di tutta la vita umana. [...] Essa sarà perfetta nella vita futura, quando vedremo Dio facie ad faciem (1 Cor. 13.12), rendendoci perfettamente felici. Ora invece la contemplazione della verità è possibile imperfettamente, cioè per speculum in aenigmate (ibid.), dandoci un inizio di beatitudine, la quale comincia in questa vita, per completarsi nell'altra”[1].

Nel sogno, la vita attiva è in prima istanza raffigurata dalle belle mani di Lia, che si muovono per intrecciare la ghirlanda: era opinione diffusa che i fiori rappresentassero le virtù e le buone opere. Lia dice di adornarsi per piacersi davanti allo specchio (Dio, in connessione con 1 Cor. 13.12). Anche Rachele ha a che fare con uno specchio (miraglio), ma ella si limita a veder, mentre Lia è felice (si appaga) con l'ovrare. Chiosa Ernesto Trucchi: “Attraverso l'Inferno ed il Purgatorio Dante ha raggiunto la perfezione della vita attiva, che gli appare in Lia; ma la vita attiva perfetta predispone alla vita contemplativa che ora comincia per Dante, e che Lia annunzia, nominando Rachele”[2]. Lia, così, conduce a Rachele. Infatti “omnis qui ad Dominum convertitur, contemplativam vitam desiderat, quietem aeternae patriae appetit; sed prius necesse ut in nocte vitae praesentis operetur bona quae potest, desudet in labore, id est Liam accipiat, ut post ad videndum principium in Rachel amplexibus requiescat”[3].

Ci chiediamo a questo punto quale stretto rapporto possa avere il sogno con la situazione del pellegrino, che ha completato la purgazione.

Per rispondere alla domanda, ricordiamo che Labano ha la stessa etimologia di “Libano”: dealbatio, cioè “sbiancamento”, moralmente “purificazione”. Con le parole di sant’Agostino, “Laban interpretatur dealbatio”[4]. Nel rilevare il passo, Paola Pacchioni afferma che “il poeta stabilisce una sottile relazione tra l’esperienza del patriarca e la propria”[5], tenendo presente il fatto che anche Giacobbe vide Dio facie ad faciem. In verità, l’ipotesi di Dante come un “nuovo Giacobbe” non è nuova: “As Jacob toiled for seven years in order to gain the hand of Rachel, only to be given that of Leah, so Dante has toiled up seven terraces of purgation with the promise of Beatrice, only to find Matelda”. Così Robert Hollander[6], che nel suo commento ad loc. rinvia ad altri studiosi (in primis, Giovanni Pascoli). Ma lo spunto è suscettibile di approfondimento, considerato che “Libano” può agevolmente collegarsi a “Purgatorio”[7]. Agostino in particolare scrive che la “virtus activa” (“figurata” in Lia) è “in purgatione peccatorum”, mentre la ”virtus contemplativa” (Rachele) è “in lumine purgatorum”[8]. E nel Contra Faustum: “ogni utile servo di Dio, costituito sotto la grazia della purificazione (dealbationis) dei peccati, a che cos'altro mai volse l'animo, che cos'altro amò appassionatamente se non gli insegnamenti della sapienza? Questa sapienza i più ritengono di acquistarla e di raggiungerla non appena si siano esercitati nei sette comandamenti della legge che riguardano l'amore per il prossimo e vietano che si nuoccia ad alcuno”; ma questo non basta: “bisogna accettare altri sette comandamenti (come se gli si dicesse: Servi altri sette anni per Rachele): essere povero di spirito, mite, piangente, affamato e assetato di giustizia, misericordioso, puro di cuore, pacifico”[9]. È evidente che Agostino si sta riferendo alle sette beatitudini pronunciate nel discorso della montagna, le quali accompagnano e sottolineano (al passaggio delle varie cornici) il processo di purificazione dell’anima: le beatitudini sono connesse ai doni dello Spirito Santo, antitetici ai sette vizi capitali di cui ci si purga sul sacro monte[10]. In tal modo il sogno sembra attagliarsi molto bene all’iter espiatorio compiuto dal pellegrino.

Tale adeguatezza, tuttavia, si manifesta anche per un altro aspetto.

Dopo il suo risveglio, Dante prova varie esperienze di straordinario tenore. Assiste ad esempio alla cosiddetta “processione mistica” (con al centro il carro della Chiesa) e poi subisce l’aspro (ed inatteso) rimprovero di Beatrice: ciò lo porta al pentimento estremo, allo svenimento sulla riva del Lete; in seguito egli vede riflesso negli occhi di Beatrice il Grifone-Cristo, or con altri or con altri reggimenti (XXXI.123). La letizia provata in quest’ultimo caso è descritta con linguaggio chiaramente eucaristico (l’anima mia gustava di quel cibo | che, saziando di sé, di sé asseta: XXXI.128-129), come abbiamo evidenziato[11]. Questo ci induce necessariamente a supporre una precedente esperienza di alienatio mentis, dato che l’Eucaristia consiste nella sottomissione completa a Dio, nella rinuncia di sé con cui l’anima cristiana muore misticamente sulla croce: “sono stato crocifisso con Cristo; dunque non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Gal. 2.20). “… apparuit mortis victor, novus homo. Ita et nos non cessemus tollere nostram crucem ... Persistamus in cruce, moriamur in cruce”[12]. L’Aquinate precisa che grazie a tale sacramento “anima spiritualiter reficit” e “quodammodo inebriatur dulcedine bonitatis divinae”[13]; ed infatti “passio sui amaritudine quasi hominem extra se ponit”[14]. Ciò rinvia all’antico tema della sobria ebrietas: per Cipriano, ad esempio, “come il vino volgare scioglie lo spirito e bandisce ogni tristezza, così il sangue di Cristo cancella il ricordo del vecchio uomo dando l’oblio della vita profana”[15]. Si tratta, commenta Jean Daniélou, “à la fois d’une symbolique sacramentaire et aussi d’une symbolique mystique, la transformation opérée par le sacrement suscitant dans l’âme une expérience des choses de Dieu”. Gregorio Nisseno, continua Daniélou, definisce una simile “ebrietas” come una sorta di “uscita da sé”: “l’ivresse définit ici l’effet de l’Eucharistie, qui est de faire sortir l’homme de sa vie naturelle pour l’introduire dans la vie divine”[16]. In effetti, il pellegrino prova una palese “uscita da sé” proprio perdendo i sensi: lo svenimento, descritto come “morte mistica” da Luigi Pietrobono[17] e come rinascita ad una “nuova vita” da Francesco Mazzoni[18], può così interpretarsi in chiave eucaristica. D’altra parte l’esperienza eucaristica, che consente l’ingresso nella comunità ecclesiale, è indispensabile per Dante, il quale è considerato ‘indegno’ da Beatrice di bere al Lete, non facendo parte a tutti gli effetti (dato l’andamento imperfetto del suo iter purgatoriale) del Corpo mistico della Chiesa[19].

Dante, dunque, deve divenire membro del Corpo di Cristo; ma ciò rende assai appropriato il riferimento a Rachele, dato che, con le parole di Gregorio Magno, “per Rachel Ecclesia figuratur”[20]: già san Girolamo, in verità, aveva dichiarato Rachele “typus Ecclesiae”[21]. D’altronde l’Eucaristia “sacramentum est sanctitatis et pacis”[22], ed è nella Chiesa che si gode al massimo della pace e del “silentium contemplationis”: naturalmente in hac vita la comunità degli eletti (electorum ecclesia), non ancora in patria, “adhuc sola initia contemplationis inspicit”[23].


[1] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae II-II, q. 180, a. 4.

[2] Comm. a Purg. XXVII.97-102.

[3] Gregorio Magno, In Ezechielem, 2.2. Una delle etimologie di Rachele è “visum principium”.

[4] Contra Faustum, 22.52. Lia e Rachele sono “filiae remissionis peccatorum, hoc est dealbationis, quod est Laban” (22.54).

[5] “Lia e Rachele, Matelda e Beatrice”: L’Alighieri, 18/2001, p. 50.

[6] Allegory in Dante's ‘Commedia’, Princeton University Press, 1969, pp. 151-152.

[7] Cfr. p. es. Lino Pertile, La puttana e il gigante, Ravenna, Longo, 1998, pp. 59-60.

[8] De consensu Evangelistarum, 1.8.

[9] 22.52. Cfr. Beda(?), Super Genesim, 93.336 (Migne).

[10] Vedasi il nostro commento (DDP, 2006) a Purg. XI.22-24.

[11] Vedasi il nostro commento a Purg. XXXI.121-129.

[12] Bernardo di Chiaravalle, In die Sancto Paschae, 8.

[13] Summa Theologiae III, q. 79, a. 1.

[14] Super Sent. IV, d. 8, q. 2, a. 2, qc. 2.

[15] Epist. 63.11.

[16] Essai sur le mystère de l’histoire, Paris, Les Editions du Cerf, 1982, pp. 226-227.

[17] Comm. a Purg. XXXI.89-90.

[18] In Lectura Dantis Scaligera. Purgatorio, Firenze, Le Monnier, 1963, p. 1162.

[19] Al riguardo rinviamo al nostro articolo “Dante e Beatrice nell’Eden”, di imminente pubblicazione (L’Alighieri, 33/2009).

[20] Moral. 30.25.72.

[21] Epist. 22.21.

[22] Tommaso d’Aquino, Super Sent. IV, d. 8, q. 2, a. 4, qc. 3.

[23] Moral. 30.16.53.