Romano Manescalchi
(Liceo Classico “Plinio il Giovane”,
Città di Castello)
2 August 2002


«La tua città» (Inf. VI, 49)

Mentre il protagonista passa attraverso il fango in cui sono immersi i golosi, sotto una pioggia battente, un dannato s’alza e quasi sfida Dante a riconoscerlo. Dante non riesce a tanto, eccessiva è «l’angoscia» (v. 43), che ha cambiato i lineamenti del dannato e lo invita a presentarsi lui stesso. Ciacco comincia: «La tua città…». Ma perché non “nostra”? Perché «la “tua” città», se Firenze è anche la città di Ciacco? Una parafrasi potrebbe essere questa: «La tua città, Firenze, fu anche la mia città mentre ero vivo, e il nome con cui voi cittadini mi chiamavate allora è Ciacco». Ma «Riconoscimi, se sai», v. 41, come anche «Ciacco, il tuo affanno…», v. 58 rimandano ad una conoscenza diretta, consuetudinaria, tra il dannato ed il poeta, che non necessita di spiegazioni così, diciamo, dettagliate, quali sarebbero necessarie con uno sconosciuto. Se Dante lo conosceva, e bene, non era necessario ricordargli «anche» che era di Firenze: «cittadini» dice già che è di Firenze. «Voi cittadini (voi di Firenze, a Firenze) mi conoscevate molto bene tanto da essere a tutti noto come Ciacco»: bastava. La risposta oltrepassa quindi la richiesta e con qualcosa che non è necessario ai fini del riconoscimento del personaggio: e se non serve per il riconoscimento, deve essere in relazione con la denuncia della corruzione della città: «La tua città (questa città che non riconosco più come mia), che è (oggi) piena di invidia, tanto che già ne trabocca il sacco, mi ebbe (un tempo) con sé nella vita serena (quando ancora le cose non erano a questo punto) ». E notare che «serena» si contrappone ad «invidia», che obnubila lo sguardo – in-video, guardo con astio, fatto che impedisce ogni «serenità» (già l’Ottimo: «per rispetto del presente tempo “annebbiato” dalla “nebbia” dell’invidia»; ed altri similmente) -- e come la contrapposizione temporale diventi quindi contrapposizione morale, di stile di vita.

Penso quindi giusto approfondire un’ipotesi già avanzata:

  1. L. Pietrobono: «Firenze era anche la sua città; ma è corrucciato contro di essa e non vorrebbe riconoscerla come tale»;

  2. F. Torraca: «se quest’inciso non è, né può essere, ozioso, bisogna intendere che l’ombra aveva particolare ragione di dolersi de’ Fiorentini».

  3. D. Mattalia: «tua: di ora, di te vivo: ma con accento di quasi ripudio morale della Firenze dell’anno 1300, così diversa dall’antica»;

  4. G. Giacalone: «L’anima risponde mettendo avanti il nome della sua città… anche se qui appare quasi estranea a lui, tanto da essere la tua, non la mia città»;

  5. G. Bondioni [1]: «… più sottile è la distinzione che si viene a istituire fra la tua città, quella di oggi e che verrà denotata negativamente al verso successivo, e la città conosciuta dal dannato e dai grandi Fiorentini cui si farà cenno più oltre».

Le ragioni qui portate ci sembrano valide e ci stupiamo nel vedere che anche i commenti che vanno per la maggiore, non ne tengano conto: U. Cosmo, Casini- Barbi; C. Steiner; C. Grabher, N. Sapegno; Rossi-Frascino; G. Fallani, F. Montanari; M. Porena; Bosco-Reggio; Vallone-Scorrano; Caridei-Sarpi; Pasquini-Quaglio; Mariani-Guerre; V. Sermonti, R. Hollander [2], ecc.

Altri, che pur sente non potersi evitare il problema, non approfondisce però come si dovrebbe, e si può, tenendo conto di quanto detto: Corti-Garavelli: «…"La tua città": Firenze, che sarà l’argomento principale del dialogo, è amata e insieme odiata da Ciacco»; Di Salvo [3]: «Firenze, ora la tua città (ma fra poco non lo sarà più)». Jacomuzzi [4]: «non ha valore possessivo, ma anche affettivo»; Chiavacci Leonardi [5]: «coinvolge Dante (tua) personalmente».

Per conto mio ricordo un modo di esprimersi del discorso affettivo quando, ad esempio, una donna dice al marito, o viceversa: «Hai visto cosa ha fatto “tuo” figlio?»: che è anche “suo” figlio. C’è un tirarsi indietro polemico, ben logico anche in Ciacco che, come successivamente Farinata, Brunetto Latini, i tre fiorentini del canto XVI, censureranno e condanneranno i moderni costumi della città, che certamente non è la «loro» città, la città come «loro» la vorrebbero.

Ma si può dare a Ciacco la serietà morale di Farinata, Brunetto, Jacopo Rusticucci, Tegghiaio Aldobrandi, Guido Guerra, Mosca Lamberti, e «gli altri ch’a ben far puoser gl’ingegni» (v. 81)? Non è perché sente questa parentela morale con essi che Dante, alla fine del colloquio, gli chiederà di loro (vv. 77 segg.)? Giustamente, a me pare, il Mattalia: «Dovette essere personaggio assai noto, e largamente mescolato e addentro alle vicende della società fiorentina della seconda metà del Duecento… Dante… attesta una sostanziale stima per Ciacco, poiché non certamente a persona di bassa levatura morale e intellettuale egli avrebbe demandato l’impegnativo compito di chiarire, e non è poco, le cause della discordia politica che travagliava Firenze… Né va dimenticata la consacrazione implicita nel fatto che Ciacco, sia pur da un ripiano inferiore, lega il suo nome agli altri due personaggi protagonisti dei sesti canti del Purgatorio e del Paradiso: Sordello e l’imperatore Giustiniano».

E’ proprio impossibile attribuire all’«angoscia» del v. 43 un valore non solo «fisico» (Sapegno e altri), ma anche di «tormento morale», significato che la parola ha sicuramente a Inf. IV, 19, ponendo così Ciacco a pieno diritto sul piano di Farinata e degli altri? Di tutti costoro, Ciacco incluso, anche Hollander dice che sono parimenti «involved in Fiorentine public affairs, always championing the cause of good governance» (cit. p. xxxii, seg.) ed A. Pézard arriva ad affermare: «D. non [...] sceglierebbe [Ciacco] a portavoce se egli avesse sulla coscienza la minima colpa civica. E siccome tutti i Fiorentini hanno conosciuto C. e lo devono riconoscere, pare evidente che D. gli fa tenere i discorsi che C. ha realmente tenuti […] [I]n lui c’era il senso della giustizia» (ED, s.v.). Quanto diciamo su Ciacco, quindi, non viene che a corroborare una linea già emersa.

Lo spessore del personaggio forse è superiore a quanto creduto sinora: ci sembra quello di Jacopo Rusticucci e degli altri tutti rivolti a quella «cortesia e valor » (XVI, 67) che ci sarebbe stata un tempo: ed ora se è vero quanto riportano le Chiose Selmi -- «Questi conobbe Dante, però che, nanzi che egli morisse, aveva Dante quattordici anni» -- sarebbe un coetaneo di Jacopo Rusticucci (ancor vivo nel ’66), di Brunetto (m. ’94), Guido Guerra (m. ’72) ecc.; ed a questo punto nulla di strano che ne anticipasse anche l’atteggiamento di nostalgia per una Firenze diversa da quella dei tempi di Dante con l’opposizione temporale -- “tua”, “mia”, parallela a quella morale -- «piena d’invidia», «serena». Di fatto Dante gli chiederà di loro e la domanda è fatta come se Ciacco dovesse conoscerli bene, ne condividesse vita e pensieri. E la stessa cosa si ricava dalla risposta: il raccordo con la tematica svolta da quei personaggi è implicita.

Potrebbero a tutto ciò opporsi i versi 88/89 «Ma quando tu sarai nel dolce mondo / priegoti ch’a la mente altrui mi rechi». Perché, si potrebbe dire, dovrebbe voler essere ricordato in una Firenze contemporanea da lui rifiutata e condannata? Intenderei così: «Ma quando tu sarai sù nel mondo, che, nonostante tutto, rispetto a questo infernale è “dolce”, ti prego di ricordarmi “altrui”, agli altri (soprattutto magari a quelli, fra gli “altri”, a cui è rimasto un po’ legato)». Può non voler rinunciare ad operare nel mondo, come Brunetto, cui si potrebbe fare la stessa obiezione: «Sieti raccomandato…», Inf. XV, 119. La condanna di Firenze non è rinuncia a tentar di far qualcosa per la città, che tanto sembra stare a cuore a tutti i dannati. Si contraddirà anche un po’: è umano.

Ma come reagisce Dante? Accetta la «provocazione» di Ciacco? Risponde: «Ciacco, il tuo affanno / mi pesa sì ch’a lagrimar m’invita; / ma dimmi, se tu sai, a che verranno / li cittadin de la città partita?…» (vv. 58-61). Cosa significa “de la città”? Ha accettato Dante che questa Firenze sia la “sua” Firenze? O non l’ha piuttosto anche lui “distaccata” da se stesso? Insomma “de la città” non significa “di quella città” come se Dante la guardasse da lontano, forse già fuori di Firenze, forse già in esilio? Quel «della» mi pare terribile: Firenze, la «sua» Firenze, «quella»! Ci vedo un distacco totale. Se quando scrive queste cose è già in esilio noi troveremmo che l’esilio fisico ha come prodotto anche un esilio morale, interiore e psicologico (che comunque potrebbe essersi già prodotto a Firenze), sul livello di quello espresso nella canzone Tre donne e particolarmente il verso «l’essilio che m’è dato onor mi tegno», CIV, 76. Ma forse siamo ad un livello di maggiore sconsolatezza. In versi come quello della canzone troviamo un Dante che contrasta, rinfaccia, mostra ancora il suo sdegno, come Ciacco. Qui invece rivela un’amarezza senza confine che non accetta più nemmeno di dichiararsi: che non vuole consolazioni, commenti; che ormai, angosciata, esterrefatta, constata. Forse emerge quell’esilio interiore da cui è nata la Commedia. Questo sembra dire Dante: «Ciacco, Firenze non è più la “tua” città, ma non è più nemmeno la “mia”».


[1] G. BONDIONI, La Divina Commedia, Inferno; Milano, Principato, 1998

[2] D. ALIGHIERI, Inferno, translated by R. &J. HOLLANDER, Introduction & notes by R. HOLLANDER, New York, Doubleday, 2000

[3] T. DI SALVO, La Divina Commedia, Inferno, Bologna, Zanichelli, 1998

[4] S. JACOMUZZI et al., La Divina Commedia, Inferno, Torino, SEI, 1999

[5] M. CHIAVACCI LEONARDI, La Divina Commedia, Inferno, Bologna, Zanichelli, 1999