Simone Marchesi
(Sarah Lawrence College)
9 December 2002


Dante, Virgilio (e Agostino) di fronte ai sette candelabri: Purgatorio 29.43-57

La processione mistica che si apre in Purgatorio 29, una lunga teoria di figure che si snoderà davanti agli occhi di Dante per gran parte del canto, è aperta da sette candelabri. Identificati sul principio erroneamente con sette alberi d’oro, questi, che più propriamente dovrebbero forse chiamarsi candelieri (a norma di Paradiso 11.15), sono sormontati da sette fiamme che—come pennelli—dipingono lo spazio sovrastante il percorso della processione mistica con sette liste dei colori dell’iride:

Poco più oltre, sette alberi d’oro
falsava nel parere il lungo tratto
del mezzo ch’era ancor tra noi e loro;
ma quand’ i’ fui sí presso di lor fatto,
che l’obietto comun, che ’l senso inganna,
non perdea per distanza alcun suo atto,
la virtú ch’a ragion discorso ammanna,
sí com’ elli eran candelabri apprese
(Purgatorio 29.43-50) (1)
All’apparire del complesso di luci e colori che di lì a poco chiamerà “il bello arnese”, Dante si volge indietro a Virgilio, ripetendo il gesto con cui aveva reagito alle parole di Matelda che, alla fine del canto precedente, aveva correlato tipologicamente il paesaggio edenico circostante con quello dell’età aurea sognata “in Parnaso” dai poeti classici (28.139-48). Se nella prima occasione il suo sguardo aveva ricevuto in risposta il sorriso rassicurante della prima guida e del compagno di strada Stazio, la domanda contenuta nello sguardo pieno di ammirazione di Dante incontra solo lo stupore di Virgilio—segno di un simile, se non più grave, disorientamento:
Io mi rivolsi d’ammirazion pieno
al buon Virgilio, ed esso mi rispuose
con la vista carca di stupor non meno.
(ibid. 55-7)
Un piccolo enigma per i due protagonisti del breve episodio, le luci che guidano la processione dei ventiquattro seniori (altrettanti libri del Vecchio Testamento), dei quattro animali (simbolici dei Vangeli) e dei sette personaggi (cui corrispondono gli Atti degli Apostoli, le Epistole apostoliche e l’Apocalissi di Giovanni) non hanno mai costituito un vero problema esegetico. Anche se non sono mancate di quando in quando voci dissonanti sul loro significato, e su quello delle sette liste di colore che si lasciano dietro, l’identità simbolica dei candelabri è passata in giudicato(2): il numero e la collocazione ne suggeriscono l’immediata identificazione con lo Spirito settemplice di Dio, da cui derivano i Sette Doni dello Spirito Santo (come da Isaia 11:2-3 in relazione con Apocalisse 4:5 e 11), cioè Sapienza, Intelletto, Consiglio, Fortezza, Scienza, Pietà e Timore di Dio(3). Quello che non ha ricevuto, tuttavia, sufficiente attenzione è il motivo della presenza dei Sette Doni nel ruolo di battistrada per la processione del Canone biblico. Perchè Dante premette alla processione cui è chiamato ad assistere—un corteo, si noti, eminentemente anche se non esclusivamente testuale—proprio questo simbolo? Che cosa hanno a che vedere lo Spirito settemplice di Dio e i Sette Doni dello Spirito Santo con il Vecchio e il Nuovo Testamento?

Un testo che è rimasto fin qui in ombra nella discussione di questo nodo esegetico può essere usato per gettare luce sia sul ruolo strutturale dei candelabri nella processione sia sulla reazione di Virgilio alla loro vista. Alle glosse tradizionali, che rimandano al nesso Isaia-Apocalisse (per i candelabri e le luci che da essi emanano) ed al cosiddetto Prologus galeatus di San Girolamo o la sua Epistula 53, Ad Paulinum (per le figure che li seguono), si deve, credo, aggiungere la discussione dei Sette Doni dello Spirito Santo intesi come scala verso una corretta prassi di ermeneutica biblica che Agostino affida alla breve digressione compresa tra i capitoli 7 e 9 del libro secondo del De doctrina christiana.

In Agostino, la discussione dei Sette Doni è legata al simbolo dantesco dei candelabri in primo luogo per la collocazione: entrambi sono seguiti da una rassegna del Canone biblico. Interrompendo il ragionamento che ha svolto fino a quel punto sulle virtù stilistiche (per ultima la dolcezza) della Scrittura divina, Agostino inserisce un capitolo che tratta delle tappe spirituali per le quali deve passare l’interprete del testo biblico per raggiungere una reale intelligenza di ciò che gli sta di fronte. Le tappe sono appunto organizzate secondo la progressione inversa dei Sette Doni: dal Timore di Dio alla Sapienza (2.7.9-11). A questi due capitoletti fa immediatamente seguito una rassegna dei libri vetero- e neotestamentari che sono per Agostino degni di fede (2.8.12-3). Il testo del Purgatorio e quello del De doctrina christiana si connettono per l’identità del principio con cui organizzano il materiale: prima introducono i principi esegetici che devono controllare la lettura dei testi biblici e poi descrivono il canone dei libri su cui questi devono esercitarsi.

La lettura in filigrana del testo di Agostino arricchisce, complicandolo, il ruolo simbolico dei candelabri nella processione nel Paradiso terrestre. Per Agostino, come per Dante, la presenza dello Spirito di Dio nei sette Doni non ha solo reso possibile la creazione dei testi che costituiscono il canone autoritario della Cristianità, essa deve presiedere anche alla loro esposizione. Oltre, cioè, a fornire un’indicazione retrospettiva del modo in cui la Scrittura si è venuta a creare—attraverso l’ispirazione divina—i sette candelabri ne propongono anche i fondamenti per una corretta ermeneutica. La considerazione che, come nota Enrico Malato, i redattori dei libri sacri si sono mossi “sulle orme” dello Spirito Santo (un movimento che si traduce nel segno tangibile dell’ordine del corteo dantesco) fa scaturire anche l’invito ad applicare ai loro testi un’ermeneutica altrettanto ispirata.

Se rileggiamo le terzine dedicate ai candelabri con in mente la prospettiva ermeneutica che la probabile fonte agostiniana suggerisce, anche la reazione di Virgilio è passibile di un’interpretazione più precisa. La sua incomprensione di fronte al segno della presenza dello Spirito Santo nella Scrittura funziona come una riconferma, a distanza, del suo fallimento come esegeta. La denuncia della limitatezza ermeneutica del suo letteralismo (che si era insinuata nel testo di Purgatorio 22, quando la prima guida era uscita perdente dal confronto con il suo emulo Stazio su questioni di ermeneutica di testi secolari) si riflette qui nel gesto con cui Virgilio risponde alla muta interrogazione di Dante. Come, in Purgatorio 22, Virgilio si era dimostrato incapace di leggere il significato salvifico che era nascosto nei propri testi, così, adesso, egli rimane escluso dalla compresione del segno in cui è riassunto il nodo dell’ermeneutica cristiana: la circolazione dello Spirito tra i testi biblici, i loro autori ispirati ed i loro non meno ispirati interpreti. Posto di fronte al segno dell’origine spirituale dei testi biblici e della necessità di una loro esegesi coerentemente spirituale, Virgilio non può comprenderlo(4). L’ultimo gesto che la Commedia registra del poeta latino è quella “vista carca di stupor non meno” che lo pone, necessariamente, al di qua della soglia della salvezza.

 


[1] La Commedia è citata dall’edizione a cura di G. Petrocchi, Torino, Einaudi, 1975.

[2] Una panoramica sui commenti contenuti nel Dartmouth Dante Project mostra un consenso generalizzato, anche se non privo di proposte alternative, sul valore dei candelabri. Pietro1 introduce tra i possibili significati il “septenum ordinem clericatus”; le Chiose Cagliaritane accennano a “li secte sacramenti”; l’Anonimo Fiorentino include “i sette articoli di fede, … i sette ordini de’ chierici, … le sette particulari ecclessie della chiesa universale … militante”; Landino e Daniello (come il Buti, sulla scorta di Benvenuto, prima di loro) leggono i candelabri come i doni dello Spirito Santo e poi glossano le fiammelle come i sacramenti (sed contra, non a torto, il Lombardi); Tommaseo riassume varie ipotesi, ma sta con chi vi legge (Gabriele) “i sette Sacramenti”; Torraca, isolato, vi vede le sette beatitudini evangeliche (le fiammelle sarebbero i meriti e le liste i premi). Nel ventesimo secolo ha fortuna l’identificazione dei candelabri, che sposta poco la sostanza della glossa, con “lo spirito settemplice di Dio” fonte dei Sette Doni figurati nelle liste di colore (tra gli altri, Oelsner, Scartazzini, Tozer, Grandgent, Steiner, Porena, Sapegno, Chimenz, Giacalone, Singleton, Pasquini-Quaglio).

[3] Una discussione sintetica della question si può trovare nella voce di E. Malato, “Candelabri”, in Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1970, 1:785b. Il rimando obbligato è alla presentazione dei Sette Doni che Dante offre in Convivio 4.21.12 (un passo che, incidentalmente, contiene una piccola crux intertestuale, forse non casualmente agostiniana). In un diverso contesto argomentativo, si veda anche “Un candelabro di nome Jesse?” in L. Pertile, La puttana e il gigante, Ravenna, Longo, 1998, pp. 43-50.

[4] Per la sostanza della dialettica tra Stazio e Virgilio, si veda R. Hollander, Il Virgilio dantesco, Firenze, Olschki, 1983, pp. 86-9 e, per i candelabri, p. 133n. Sulla possibilità che nell’incontro tra i due poeti latini si rispecchi un momento di riflessione/palinodia da parte di Dante intorno ai principi della propria ermeneutica, ho avanzato alcune ipotesi in “L’intentio auctoris tra Purgatorio 22 e Convivio. Poesia ed ermeneutica dantesca in movimento” (in corso di stampa negli atti del convegno pisano “Leggere Dante: Seminario del Dottorato di Studi Italianistici”, a cura di L. Battaglia Ricci).