Antonio Soro
(University of Sassari)
16 February 2009


“PESCE” in Par. V, 97-109: un acrostico inverso

A tutti sono noti i due acrostici danteschi la cui non casualità appare praticamente indiscussa: essi sono VOM in Pur. XII e LVE in Par. XIX. In questo breve articolo si sottopone all’attenzione della critica un acrostico inverso, PESCE, individuato su cinque terzine consecutive, ai versi 97-111 del V canto del Paradiso:

  E se la stella si cambiò e rise,
qual mi fec'io che pur da mia natura
trasmutabile son per tutte guise!
  Come 'n peschiera ch'è tranquilla e pura
traggonsi i pesci a ciò che vien di fori
per modo che lo stimin lor pastura,
  sì vid'io ben più di mille splendori
trarsi ver' noi, e in ciascun s'udìa:
«Ecco chi crescerà li nostri amori».
  E sì come ciascuno a noi venìa,
vedeasi l'ombra piena di letizia
nel folgór chiaro che di lei uscia.
  Pensa, lettor, se quel che qui s'inizia
non procedesse, come tu avresti
di più savere angosciosa carizia;

L’acrostico, presente a tutte le terzine, non è facile da scorgere a causa dell’ordine di disposizione delle lettere, che vanno dal basso verso l’alto.[1] Tuttavia, una volta individuato, esso carica ulteriormente di significato i versi lungo i quali si staglia, poiché veicola, terzina per terzina, l’immagine di un progressivo avvicinarsi delle anime all’oggetto della loro carità.
In questo breve articolo suggeriamo una lettura che parta dalle impressioni visive – luci e movimenti – delle quali Dante cerca di rendere partecipe il lettore. A partire dalle immagini, infatti, si può intuire il messaggio di cui l’acrostico si fa veicolo; un acrostico scritto dal basso verso l’alto, quasi si alluda ad una risalita, ad una ‘emersione’ delle anime – il «pesce» – «a ciò che vien di fori», cioè verso ciò che esse avvertono essere come «pastura». La luce sovrumana nella quale le «ombre» del V canto sembrano immerse, come nell’«acqua il pesce andando al fondo», [2] secondo una similitudine che Dante aveva utilizzata per le anime penitenti avvolte dal fuoco, attira invece Dante sempre più verso le profondità di quella gioia. Proprio in questa implicita antitesi, Dante che ‘emerge’ alla luce/«ombre» ‘immerse’ nella luce, il poeta cerca di figurare l’azione della grazia, che agli occhi del poeta pellegrino si traduce in una organica composizione di luci, sorrisi e armonici movimenti geometrici che eleva l’anima e la ‘avvolge’.

Richard Lansing, ricordando che i medievali ponevano la figura del cerchio in relazione con la perfezione e la trascendenza divina, scrive che le anime che si approssimano a Dante

«suggesting in their movement the barest outline of a ring as they are compared to fish that surround a piece of bait and from time to time take nips at it, leaving the periphery of a circle and moving to its center along lines which suggest the spokes of a wheel» [3].

Questo procedere simmetrico non è rigido, ma ancora una volta l’impressione è quella di un guizzare. Lansing aggiunge che tali anime lucenti «disappear swiftly, “quasi velocissime faville”» (Par. VII, 7).[4] Bisogna aver osservato salire le scintille da una fiamma per sapere che la loro ascesa, per effetto dei caotici spostamenti d’aria ascensionale indotti dal calore, appare simile al guizzare sinuoso e veloce dei pesci. In questo caso, il movimento è espressione dinamica di una felicità che per prima avvolge Beatrice. Ella diviene improvvisamente raggiante di spirituale letizia quando oltrepassano il cielo della Luna e giungono a quello di Mercurio e, anzitutto lei e poi Dante, riflettono la luce che viene promanata sempre più man mano che ci si avvicina all’Empireo. Dante associa il mutamento improvviso della «stella» che «rise» (si noti l’effetto voluto di catacresi) per l’aumento della luminosità al guizzo dei pesci. La luce di provenienza divina, che simbolicamente rappresenta la verità che «trasforma», d’improvviso rende Dante partecipe di una metamorfosi, di una trasmutazione:

   E se la stella si cambiò e rise,
qual mi fec' io che pur da mia natura
trasmutabile son per tutte guise!

Il suo sguardo, adesso, sarà colpito dalla letizia che rifulge da Beatrice e dalle anime, e lo sarà a tal punto che i lineamenti corporei corrispondenti sembreranno quasi sparire, e potranno essere distinti dal poeta solo da una breve distanza.
La luce è dunque responsabile del «guizzare» di gioia, e «their radiance is so luminous that they conceal completely any evidence of earthly features».[5]

A dare maggior vigore alle osservazioni del Lansing vi è una scena del Purgatorio da porsi in associazione tematica con quella del V canto del Paradiso che stiamo esaminando; essa si trova ai versi 40-42 del XVII canto, dove Dante si desta dal sonno ed è abbagliato dalla luce nella quale è immerso un angelo:

Come si frange il sonno ove di butto
nova luce percuote il viso chiuso,
che fratto guizza pria che muoia tutto.

La terna luce-pesce-guizzo individua dunque un topos, e di esso Dante si serve per comunicare il fulgido ‘aspetto’ della verità. Colpisce il fatto che egli preferisca utilizzare una simbologia d’acqua piuttosto che una aerea: dove la similitudine teologica sarebbe più efficace se avesse per protagonisti degli uccelli – creature leggere e che si elevano verso  l’alto cielo – il poeta fiorentino predilige piuttosto i pesci.  Questi animali d’acqua sono i più idonei a descrivere il lieto «guizzare» originato dalla progressiva riconquistata purezza, ed anche la «danza» con la quale tali anime si congederanno. Dunque il paragone con una «peschiera ch’è tranquilla e pura» esprime la serenità di un’anima, trasformata nella calma di una sublime contemplazione, che quasi passa dalla caotica tiamat terrena ad acque di una calma sovrumana. Ed è nel relazionarsi di Dante con le anime beate che queste divengono per lui PESCE, e lui per loro «pastura». L’acrostico, allora, andrebbe forse visto come un sopraffino espediente di tornitura, che va a completare e a rifinire un abbozzo nel quale i legami fra i personaggi sono determinati da messaggi visivi e da movimenti di una geometricità teofanica.

Il corpo, che sino ad allora si era rivelato nostalgico della propria carnalità, diviene semplicemente un’«ombra» che, per la letizia, irradia un «folgór chiaro». Ma, all’interno di quel brillio di gioia, ancora, permangono quasi inconsistenti le umbrae inferorum di pagana memoria, insignificanti resti di quel che gli uomini erano in vita, che attendono di essere rivestiti del corpo glorioso; un corpo che dia una consistenza glorificata a quell’«ombra» ormai divenuta ‘pesante’ per la nuova vita spirituale (si noti il paradosso, reso dall’«ombra» al v. 107 e dal «folgór chiaro che di lei uscia» al v. 108). Ma è ancora troppo presto per un tripudiante «guizzare» dei corpi: «Coloro che dimorano nell’aldilà attendono il corpo della resurrezione, che li porterà allo stato definitivo; ed è estremamente significativo che questo ardente desiderio sia espresso nel cielo del Sole,  dove dimorano i maestri della verità. Questo dimostra quanto la vita dello spirito sia legata alla materia [...]».[6]

In attesa di quella vita perfetta, le anime celesti si alimentano della carità: se per Dante, in virtù dell’acrostico, esse sono PESCE, il poeta stesso è per loro nutrimento, come si legge al verso 105, allitterato tre volte allo scopo aumentarne il risalto. Si ha così una vera ‘comunione’, dove tutte le anime celesti convergono verso Dante, smaniose di incrementare la loro beatitudine per mezzo della carità verso il pellegrino.

Nell’ultima terzina Dante sembra segnalare velatamente la presenza dell’acrostico, con un espediente che genera l’effetto di una mise en abîme:

Pensa, lettor, se quel che qui s'inizia
non procedesse, come tu avresti
di più savere angosciosa carizia!

Il soggetto qui sono le anime in quanto “pesce” poiché, con la P,  ciò che s’inizia al v. 109 è l’acrostico stesso.

Il poeta potrà finalmente andare oltre ed immergersi in quel mare di beatitudine; un mare che è quasi come un liquido amniotico, dove le creature che rinascono a nuova vita (ed il pesce è appunto simbolo di rinascita e rigenerazione spirituale), [7] si scoprono finalmente libere di esplorare le gioiose profondità abissali della vita comunitaria in Dio.
[1] Questo modo di scrivere l’acrostico, dal basso verso l’alto, sembra ispirato al De Consolatione Philosophiae di Boezio: «Harum in extremo margine Π Graecum, in supremo vero Θ legebatur intextum atque in utrasque litteras in scalarum modum gradus quidam insigniti videbantur, quibus ab inferiore ad superius elementum esset ascendus».

[2] Purg. XXVI, 135.

[3] R. Lansing, From Image to Idea: A Study of the Simile in the Dante’s Commedia (Ravenna: Longo, 1977), 156.

[4] Ivi, 157.

[5] Ibidem.

[6] A. M. Morace, Il tema del corpo nell’Antipurgatorio, in Purgatorio e Purgatori (atti del convegno, Sassari, 23-26 novembre 2005), a cura di G. Pissarello e G. Serpillo, 2006,  81.

[7] « ... les chrétiens “naissent à la vie éternelle par le baptême”, comme disait déjà Tertullien. C’est pourquoi ils seront très rapidement figurés par de petits poissons» (E. Urech, Dictionnaire des symboles chrétiens, Neuchâtel (Switzerland), Delachaux & Niestlé S. A., 1972, 152). Ricordiamo inoltre che l’acrostico PESCE ha un antecedente famoso nell’acrostico greco ΙΧΘΥΣ, che sta per ησοςΧριστςΘεοΥἱὸςΣωτήρ, “Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore”.