Antonio Soro
(University of Sassari)
18 March 2009


L'acrostico inverso ECATE di Purg. XXVIII, 25-37 e l'identitè di «Matelda»

Identificato in precedenza l’acrostico inverso PESCE [1], proponiamo adesso all’attenzione della critica un altro acrostico inverso alle iniziali di tutte le terzine di Purg. XXVIII, 25-37: ECATE.

Già m'avean trasportato i lenti passi
dentro a la selva antica tanto, ch'io
non potea rivedere ond' io mi 'ntrassi;
   ed ecco più andar mi tolse un rio,
che 'nver' sinistra con sue picciole onde
piegava l'erba che 'n sua ripa uscìo.
   Tutte l'acque che son di qua più monde,
parrieno avere in sé mistura alcuna
verso di quella, che nulla nasconde,
   avvegna che si mova bruna bruna
sotto l'ombra perpetüa, che mai
raggiar non lascia sole ivi né luna.
   Coi piè ristetti e con li occhi passai
di là dal fiumicello, per mirare
la gran varïazion d'i freschi mai;
   e là m'apparve, sì com' elli appare
subitamente cosa che disvia
per maraviglia tutto altro pensare,
   una donna soletta che si gia
e cantando e scegliendo fior da fiore
ond' era pinta tutta la sua via.
   «Deh, bella donna, che a' raggi d'amore
ti scaldi, s'i' vo' credere a' sembianti
che soglion esser testimon del core,
   vegnati in voglia di trarreti avanti»,
diss' io a lei, «verso questa rivera,
tanto ch'io possa intender che tu canti.
   Tu mi fai rimembrar dove e qual era
Proserpina nel tempo che perdette
la madre lei, ed ella primavera».

Noi riteniamo che l’acrostico funga da complemento informativo alle terzine relative alla «bella donna», la cui identità, in realtà, non andrebbe ricercata ‘esclusivamente’ nel nome di Matelda pronunciato da Beatrice in XXX, 119.

Pur se apparentemente, infatti, la «selva antica» di cui si parla al v. 26 pare  anzitutto significare l’Eden perduto, in realtà, proprio la scelta del termine «selva» richiama pure, per analogia, un luogo descritto nell’Eneide, e cioè la vegetazione boschiva che circondava l’Averno, il quale «lacus est circa Cumas, in qua folia atque festucæ ex circumjacente silva decidentes, statim submerguntur».[2] L’associazione non si può considerare casuale, poiché Enea riconobbe alla Sibilla cumana che «nec te / nequiquam lucis Hecate praefecit Avernis».[3]

Alle richieste di Enea, la Sibilla risponderà anticipandogli gli ostacoli, e sostenendo in particolare che «non ante datur telluris operta subire, / auricomos quam quis decerpserit arbore fetus; / hoc sibi pulchra suum ferri Proserpina munus / instituit».[4] In ossequio a questo passo, se il personaggio di Matelda deve essere identificato con Ecate, ci si deve allora attendere che Dante, proseguendo il suo cammino, giunga finalmente al luogo in cui Enea colse il ramo d’oro.

Il mistero si risolverà nel canto seguente, dove Dante si troverà dinanzi a quelli che, al v. 43, dapprima gli paiono «sette alberi d’oro».  Ma la sorpresa sua e di Virgilio saranno un tutt’uno: quella conoscenza antica, simboleggiata dai celebri alberi e già nota in relazione ai misteri eleusini, viene reinterpretata da Dante secondo il criterio già spiegato da Robert Hollander, che vede le similitudini dantesche regolate dall’allegoria storico-teologica, e non da quella poetica. Il mito virgiliano è così ‘inculturato’ dal poeta fiorentino nella tradizione cristiana, e l’«aurea tecta» di Aen. VI, 10-13 non è più un tempio pagano. Poiché Virgilio non si aspettava di trovare candelabri dove nella sua opera parlava di «arbore fetus», Dante osserva che il suo maestro «rispuose / con vista carca di stupor non meno».[5]

Ed è dunque ad Ecate che Dante, già dal v. 28, va lentamente approssimandosi, mentre l’ambiente circostante si aggrazia sempre più per la presenza della «bella donna»: il «rio» che sbarra la strada al poeta incrociandosi con essa, che « ’nver’ sinistra con sue picciole onde piegava l’erba», segna un tratto del percorso dantesco davvero emblematico: Dante non poteva davvero presentare meglio la «Trivia» [6] che, oltre ad essere associata alla primavera, era signora dei crocevia.

È da notare l’efficacia con cui il poeta ha reso il suo avvicinamento al personaggio: egli scrive l’acrostico al contrario (nel caso di  PESCE di Par. V la scrittura invertita pare alludere ad una emersione) per indicare il progressivo approssimarsi alla «bella donna», la cui presenza – che Dante coglierà «subitamente» – si percepisce già nella primavera di fiori (v. 36 «freschi mai»).

Quest’ultimo elemento è caratterizzante nel mito di Proserpina, poiché al suo ritorno periodico sulla terra «the pilgrim, filled with love of her beauty, is reminded of Proserpine’s abduction from the land of eternal spring by Pluto»: [7] essa è proprio la divinità della vegetazione. Giustamente il Lansing parla di «simile», poiché quella che si mostra a Dante in prossimità dell’Eden non è affatto Proserpina (la quale dimora negli inferi)!

Ed è perciò che Dante confida, ai vv. 49-51:

  Tu mi fai rimembrar dove e qual era
Proserpina nel tempo che perdette
la madre di lei, ed ella primavera.

Dante è cosciente della triplice identità ‘tremenda’ della donna. Egli sa di aver a che fare con la «Trivia», e sembra provare una comprensibile paura: la triplice natura di Ecate, infatti, era dichiarata espressamente dal poeta latino in Aen. IV, 609, dove parla di «Hecate triviis ululata per urbes». Non a caso, però, al v. 35 Dante parla di «rimembrar»: se infatti Ecate – la dea psicopompa che viaggia per i tre mondi – si rivela anche come Proserpina, in prossimità dell’Eden tale manifestazione è assente. La teofania di Purg. XXVIII è benigna; ed è Ecate – vera ‘janua coeli’ – la donna «soletta» che Dante ha dinanzi, e che compare in quella che è la solitudine del suo mitico destino in quanto Proserpina (fu rapita da Dite proprio mentre coglieva i fiori, come racconta Claudiano). Così, Dante la descrive sublimando quel drammatico evento, poiché la discesa ad inferos è da lui colta nell’essenzialità cristiana dell’evento:

  una donna soletta che si gia
e cantando e scegliendo fior da fiore
ond' era pinta tutta la sua via.

In un’atmosfera di dolcezza e gioia, niente affatto consona al volto infernale di Proserpina e al suo triste destino, trovandosi Dante nel luogo della Caduta originale – sommo dramma dell’umanità – l’associazione tra la beatitudine perduta e il personaggio infernale è scontata. Tuttavia, come scrive il Lansing, la «bella donna» «assures Dante that this is Eden, Eden as it was before the Fall, and an Eden to which man attains without fear of being dispossessed a second time of the bliss that he confers».[8]  Non essendoci perciò alcuna relazione fra la sua presenza e la caduta ad opera di Adamo ed Eva, ella, colti la sorpresa e il dubbio in Dante e Virgilio, spiegherà:

  «Voi siete nuovi, e forse perch’ io rido»,
cominciò ella, «in questo luogo eletto
a l’umana natura per suo nido,
  maravigliando tienvi alcun sospetto;
ma luce rende il salmo Delectasti,
che puote disnebbiar vostro intelletto».[9]

Il comportamento della donna, che va «scegliendo fior da fiore», pare essere direttamente ispirato dal De raptu Proserpinae di Claudio Claudiano, dove, scegliendo «electis herbis … ratorum spoliatur honos: haec lilia fuscis intexit violis: hanc mollis amaracus ornat;  haec graditur stellata rosis, haec alba ligustris»[10].

Si potrebbe obiettare che il nome rivelato da Beatrice nel XXXIII canto è notoriamente quello di Matelda e non, appunto, quello di Ecate; si tratta però di una tarda rivelazione, sicché alcuni commentatori si son chiesti invano perché Dante abbia deciso di rendere noto il suo nome solo alla fine della cantica.[11] Bene scrisse l’Hollander [12] quando notò che la lettura ortografica ‘al contrario’ [sic!] del nome di Matelda è in realtà un predicativo, e suona come “ad laetam” o “ad letam”, cioé Colei che conduce al leté, o Colei che conduce alla felicità. Tale era la funzione vera di Ecate, la quale apriva o chiudeva il passaggio ai mortali verso il mondo ultraterreno. Ai versi 64-66, Dante comunicherà la luminosità dello sguardo di Ecate, forse avendo presente che ella, presso gli antichi, era nota come Lucifera,  appellativo che veniva dato anche a Venere:

  Non credo che splendesse tanto lume
sotto le ciglia a Venere, trafitta
dal figlio fuor di tutto suo costume.

Possiamo ora leggere quelle terzine con un’impressione nuova, cogliendo già, nelle iniziali che scorrono tra i versi descrittivi di immagini naturali, la presenza benigna di colei che conduce l’uomo a nuova vita – dapprima per mezzo del dolore e passando attraverso il peccato, lungo la via della croce; in seguito, guardandoci con occhi amorosi, nel giubilo del ritorno a una purezza che era andata perduta – per restituire ai redenti la sublime visione della verità che la colpa originale ha nascosto alle menti, ma che gli infallibili testi della Rivelazione custodiscono nella fede sino alla parusía degli ultimi tempi.


[1] Si veda Antonio Soro, “PESCE” in Par. V, 97-109: un acrostico inverso,” February 15, 2009: www.dantesociety.org/publications.html | EBDSA |Paradiso.

[2]Caii Plinii Secundi, Historiae naturalis. Libri XXXVII, a cura di Jo. Bf. Steph Ajasson de Grandsagne, Paris, Colligebat Nicolaus Eligius Lemaire, 1829, 379.

[3] Aen., VI, 117-118.

[4] Ivi, VI, 140-3.

[5] XXIX, 56-57.

[6] Par. XXIII, 26-27; termine che compariva in Aen. VI, 13: 35, 69; inoltre VII,778, dove si parla del «templo Triviae lucisque sacratis».

[7] R. H. Lansing, From Image to Idea. A Study of the Simile in Dante’s Commedia, Ravenna, Longo, 1977, 140.

[8] Ivi, 144.

[9] Vv. 76-81.

[10] C. Claudianus, De Raptu Proserpinae,  II, 127-130.

[11] XXXIII, 119.

[12] R. Hollander, "The Women of Purgatorio", in Allegory in Dante’s Commedia, Princeton, Princeton University Press, 1969, 152, n. 18 osserva che «Dante spelled the name with e rather than an i, so that it will spell ad laetam (“toward joy”) backwards, or nearly so», facendo riferimento a J. Goudet, "Une nommée Matelda ...", Revue des études italiennes, 1 (1954), 20-60, per la trovata ad laetam.