Antonio Soro
(Università degli Studi di Roma Tor Vergata)
27 March 2014


Sulle folgorazioni di Dante: empirismo lombrosiano e perspicuità neotestamentaria

Tra i parametri borderline per i canoni della critica storiografica dantesca conserva un’episodica popolarità quello neurologico. Si tratta di una teoresi scientificheggiante con caposcuola il medico e antropologo Cesare Lombroso (1835-1909)  il quale, nell’articolo La nevrosi in Dante e Michelangelo,[1] attribuì le folgorazioni  e le cadute a terra riferite da Dante a manifestazioni epilettiche. La teoria “medica” è giunta a noi per un rigagnolo colto e, in tempi recenti, è stata ripresa apertis verbis da sedi autorevoli. Nella Vita Nuova, nella Commedia, nelle Rime, alla riva d’Acheronte o dinanzi alla più sublime immagine del femminino, il poeta-personaggio riferisce un’esperienza ‘inedita’ tra i rimatori duecenteschi  che il padre dell’antropologia criminale osservò sotto il profilo diagnostico, pur a partire da testi letterari rigidamente strutturati e codificati come quelli danteschi (dunque senza vera anamnesi). Le canzoni E’ m’incresce di me sì duramente (LXVII) e la  «montanina» Amor, da che convien pur ch’io mi doglia (CXVI), fondate su un canone cavalcantiano e costruite, con reificazione, su di un correlativo oggettivo, descrivono un travaglio per la  folgorazione che suggerisce una semeiotica non dissimile. Riguardo alla prima, se l’esoterico Mandonnet, un po’ per le spicce, riduceva Beatrice a pretto simbolo battesimale per il pargolo poeta, il misurato gusto elegiaco pone piuttosto dinanzi ad un componimento strutturalmente arcaizzante nelle prime tre strofe, ancora costretto entro lo schema guinizzelliano, in una ripetizione di Amor che ricorda l’architettura di La dolce vista di Cino da Pistoia.  Successivamente però si infrange questa struttura reticolare cristallina, per farsi “materia amorfa” - ricordo, miracolo, emozione intellettiva - sfumando e flettendo tra le pieghe del tempo, e infine dialogizzando: nella quarta e quinta strofa si parla di mente; nella sesta e nel congedo sono al centro le emozioni. La ierofania si fa storia, e infine diviene vissuto.

[…] a tutte mie virtù fu posto un freno 
subitamente, sí ch’io caddi in terra
per una luce che nel cuor percosse:
e se ’l libro non erra,
lo spirito maggiore TREMO’ SI’ FORTE
che parve ben che morte
per lui in questo mondo giunta fosse:
ma or ne incresce a quei che questo mosse.[2]

Nella  «montanina»,  col suo «secondo stilnovismo» introiettivo unito a sfumature cortesi, con echi provenzali e siciliani, torna un’esperienza del tutto analoga provocata però da un amore non corrisposto,  che strugge e consuma come «neve al sole» (v. 37). L’euritmia di amor è interrotta dall’iterazione degli occhi. Allo sguardo della «nimica» donna, che gli apparve «ceu fulgur descendens»,[3] Dante crolla, per «li occhi che m’ancidono a gran torto» (v. 45) e trema nulla più che «di paura»:

[…] Com’io risurgo, e miro la ferita
che mi disfece quand’io fui percosso
confortar non mi posso
sì ch’io non triemi tutto di paura.
E mostra poi la faccia scolorita
qual fu quel trono che mi giunse a dosso;
che se con dolce riso è stato mosso,
lunga fïata e poi rimane oscura
perché lo spirto non si rassicura.[4]

Invero la spiegazione neuro-psichiatrica non pare affatto possedere i requisiti per venire accreditata, per quanto toccante si avverta la sublimazione poetico-religiosa di una sindrome. Per un’accettabile  interpretazione delle folgorazioni con successiva perdita dei sensi e cecità, senza schemi anacronistici e aleatori, bisogna piuttosto risalire ai propositi programmatici dello stilnovismo dantesco; non nelle formulazioni teoriche, bensì attraverso la descrizione fenomenologica fornita dallo stesso Sommo Poeta nel Purgatorio (XXIV 52-54): ineludibile  passepartout per la comprensione dell’intera sua opera, essendo il suo dolce stile, nel gioco tra ispirazione interiore e sua efficace traduzione, «essenzialmente fedeltà al “dittatore”, e dunque poetica dell’oggettivazione dei sentimenti»,[5] come attesta Dante a Bonagiunta. Fatte salve le divergenze tra i commentatori, la terzina sembra ormai garantire che «Dante si stia presentando come scrittore ispirato dallo Spirito Santo, una prospettiva che provoca qualche comprensibile turbamento nei critici, ma che è essenziale per capire gli scopi del poeta».[6]  Proprio così. Non si tornerà qui sulla cognita centralità teologica nella poetica dantesca, da Boccaccio a Croce a Singleton. Ricordiamo solo, come già arguiva il primo, che «nostrum Dantem sacre theologie implicitos persepe nexus mira demonstratione solventem, non sentiat eum non solum phylosophum, sed theologum insignem fuisse».[7] Rino Caputo osserva che Boccaccio fu indotto ad «‘allegorizzare’ sulla Commedia e, dettagliatamente, su Pg XXX, in forme non dissimili da Singleton che, come è noto, fa di questo canto il fulcro dell’avvento di Beatrice»,[8] sebbene «Singleton rimprovera a Boccaccio di non saper recuperare la sostanza dell’ispirazione dantesca».[9] In fin dei conti, l’idea centrale è che ogni  epifenomeno dantesco esiga, se non la concordanza con le Sacre Scritture, almeno il loro indiretto beneplacito.

Anzitutto, bisogna distinguere le folgorazioni delle Rime dal malessere nella similitudine di Inf XXIV 112-118 (appunto, similitudine e nulla più) perché, nelle prime, la caduta a terra ha caratteristiche malefiche, «forza di demon ch’a terra il tira» (113) che si correla a Mt 17, dove un giovane «lunaticus est […] saepe cadit […] et exiit ab eum daemonium» (14-17). Solo qui, col «morbus sacer» o «demoniacus», la tesi lombrosiana può incontrarsi con l’auctoritas evangelica, e qualche ambiguità può persistere  là dove il poeta incespica contro una crudele femme fatale casentinese. Ma non vi sono appigli laddove Dante si imbatte nella donna «tanto gentile e tanto onesta», alla quale certo non si addice un codice equivocante l’infestazione diabolica. Poiché Beatrice è, nel contesto aristocratico delle Rime e in quello religioso della Commedia, il segno vivente e angelico, staccato dalla carnalità, della verità che si manifesta all’uomo, ogni sua ierofania non può che rientrare appieno nello schema della Rivelazione. Già Mt 28,3-4, mostra una evidente inerenza nello sconvolgimento dell’incontro con la gloria celeste: «erat autem aspectus sicut fulgur et vestimentum eius sicut nix. Prae timore autem eius exterriti sunt custodes et facti sunt velut mortui». Ma questo passo, valido in primis come rincalzo, pone piuttosto l’accento sullo sgomento del peccatore dinanzi alla teofania, senza innescare una trasformazione. In effetti la folgorazione, la caduta a terra, la perdita della vista di causa benigna fanno parte massimamente dell’esperienza del Doctor gentium - al quale per grazia Dante pellegrino si paragona (Inf II 32) - quando, sulla via per Damasco, viene folgorato dal Cristo glorioso (quello stesso Cristo al quale Beatrice nella Vita Nuova finisce per somigliare, come identificandosi; uno svelarsi che ricorda addirittura un’agnizione); visione che lo getta a terra, lo abbaglia e poi, dopo tre giorni di cecità, apre il suo sguardo di fariseo in errore alle realtà celesti: «subito circomfulsit eum lux de caelo, et cadens in terram […] Surrexit autem Saulus de terra; apertisque oculis nihil videbat» (Act 9,3-8). Ecco l’incontro con la verità sconvolgente che rapisce l’animo dell’uomo e ne affina ed eleva le passioni, con un fuoco purificatore dagli effetti simili a quello in cui «s’ascose» Arnaut Daniel. La fenomenologia della canzone LXVII si ritrova, a ben vedere, in Inf III 127-133, dove Dante, appena varcata la soglia maligna, alla vista di tanta disperazione rivive la medesima esperienza, con luce, perdita dei sensi, e addirittura, al v. 128, emistichio antecedente la forte cesura identico al secondo del v. 67 di Amor, da che convien, stilema che individua un nesso intimo tra l’enormità di quella voragine di perdizione eterna e la profondità della sua anima:

Finito questo, la buia campagna
TREMO’ SI’ FORTE, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.
La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;
e caddi come l'uom cui sonno piglia.

Ignoriamo come Dante pervenne all’altra riva. E tuttavia, è proprio dopo esser folgorato che egli varca ed inizia il suo pellegrinaggio, con un intervento della grazia forse reso per mezzo di un’apparente ellissi, in realtà una ricercata lacuna narrativa. «A livello sovrannaturale, il fenomeno segna il recupero di un'anima che inizia il processo di conversione a Dio».[10] Alfine alla mente del poeta si rendono accessibili itinerari nuovi, ed egli va, sospinto da un «inconsummabile» amore mistico - trasfigurante proprio perché non può compiersi in se stesso - il quale non è disturbo di personalità né psicosi, ma incontro autentico e fecondante  tra due anime che diviene dialettica, storia, arte, preghiera e vocazione.


[1] «Gazzetta Letteraria», 25 novembre 1893.

[2] Vv. 63-70.

[3] Ep IV 2; l’immagine come è noto «ha antecedenti virgiliani […] e scritturali […] è ricorrente nel linguaggio dantesco» (A. Jacomuzzi in Dante Alighieri, Opere Minori, II, Torino, UTET, 1986, p. 371, n. 7).

[4] Vv. 52-60.

[5] G. Contini, Introduzione a Dante Alighieri, Rime, a cura di G. Contini, Torino, Einaudi, 1995 [1939], p. LXIV.

[6] R. Hollander, La ‘Commedia’ di Dante Alighieri. Purgatorio, Firenze, Olschki, 2011, p. 208, nota ai vv. 52-54, e così N. Fosca, DDP, ad loc. e A. Soro, Tra cotanto senno, Sassari, EDES, 2013, p. 23.

[7] Boccaccio, Gen., XIV 10 3.

[8] R. Caputo, Il pane orzato. Saggi di lettura intorno all’opera di Dante Alighieri, Roma, Euroma la Goliardica, 2003, p.  23.

[9] Ivi, 26. «…Boccaccio e la sua commedia umana, tanto vicini al tempo di Dante e alla Commedia, eppur così incredibilmente distanti nello spirito!» (C. Singleton, La poesia della ‘Divina Commedia’, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 467).

[10] N. Fosca, ad loc.