Antonio Soro
(University of Sassari)
21 April 2009


Un’interpretazione del personaggio di Pia di Purg V 130-36

Già vent’anni fa G. Varanini mostrava quanto fosse dubbia e anacronistica l’identificazione di Pia con un membro della famiglia dei Tolomei. [1] È nostra opinione che i vv. 130-36, che concludono un canto V tutto incentrato sulla crudele violenza e sulla morte inumana di uomini sciagurati, debbano essere ancora una volta interpretati non sul piano storico, bensì su quello allegorico-teologico.

La tematica del canto è definita da tre spiriti: oltre a «‘la’ Pia» (non a caso si è riportato l’articolo che, al v. 133, Dante fa precedere al nome proprio), il poeta incontra Jacopo del Cassero – morto sgozzato, che vide «de le sue vene […] farsi in terra laco» (Pg V 84) – e Bonconte da Montefeltro, disperso nella battaglia di Campaldino e portato dall’Archiano fino all’Arno, dove la furia demoniaca delle acque del fiume «sciolse al suo petto la croce» e «di sua preda lo coperse e cinse» (V 126-29).

In entrambi i casi, centrale è la tematica della mancanza di pietà: la crudeltà efferata ha preso possesso degli animi; dell’orrore della guerra sembrano partecipare persino gli elementi naturali. La Pietà è mortanelle guerre che dilaniarono la Maremma, dove l’orrore e la disumanità presero il sopravvento sotto la spinta di interessi tutt’altro che spirituali o morali.

I confini della Maremma sono individuati da Dante in If XIII 7-9:

  Non ha sí aspri sterpi né sí folti
quelle fiere selvagge che ’n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi colti.

La regione, insomma, si estendeva da Livorno a Viterbo: infatti la distanza tra la “città dei papi” e Tarquinia è di appena 45 chilometri. Il Castrum Viterbii viene inglobato nel Patrimonio di San Pietro nell’852, divenendo una delle più importanti province dello Stato della Chiesa; nel 1194 fu cattedra vescovile; nel 1207 la città ospitò il Parlamento degli Stati della Chiesa. Lo spirito di autonomia della città si rivelò però indomabile, così che il Comune si rivolse a Federico II nel tentativo di sfuggire all’influenza papale, con un atto politico che condusse alle lotte tra guelfi e ghibellini. La sconfitta di Federico del 1243 pose definitivamente la città sotto l’egemonia del papato, che ivi stabilì la propria sede (1270).

Per la Maremma tutta questo evento rappresentò il principio di ulteriori sciagure. Allo sviluppo sereno della città di Siena, che faceva anche cospicui affari con lo Stato della Chiesa soprattutto attraverso le banche, si era frapposto nel XIII secolo il tentativo di unificazione della regione ad opera di Firenze: questa assorbì un territorio dopo l’altro, ma incontrò la fiera opposizione di Siena, che nell’ordine aveva prosperato e si vedeva costretta ad azioni bellicose per tutelare la sua indipendenza. Se la battaglia di Montaperti (1260) aveva garantito provvisoriamente l’indipendenza alla città, nel 1269 la battaglia di Colle Val d’Elsa permise l’insediamento del Governo dei Nove. Per Siena, pur sconfitta, cominciava un periodo prospero; per la Maremma, invece, non era affatto la fine dei combattimenti.

Dante, che aveva partecipato personalmente alla battaglia di Campaldino tra Firenze e Arezzo (1289), doveva avere ben presente nella memoria e attraverso varie fonti le crudeltà dei conflitti nella regione, con quel dolore interiore che in ogni tempo gli uomini di pace provano dinanzi alla guerra e all’odio omicida. Ecco perché, nel canto dei defunti per morte violenta, il sentimento predominante è la pietà.

La Pietà appariva personificata in vari componimenti stilnovistici: facciamo menzione, ad esempio, del sonetto dantesco Con l’altre donne mia vista gabbate, [2] di un sonetto di Cavalcanti (S’ io prego questa donna che Pietate) e di un componimento di Lapo Gianni (Ballata, poi che ti compuose Amore). Si tratta dunque di un topos appartenente ai testi della cerchia di amici di Dante (ricordiamo il sonetto Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io).

Ma davvero Dante può aver rappresentato la Pietà personificata tra i morti per forza? Le due terzine tanto discusse sembrerebbero confermare questa ipotesi, magari anche sul filone evangelico della Passio, come è stato già fatto notare da Diana Glenn nell’EBDSA. Tuttavia questa analogia rappresenterebbe piuttosto un punto di tangenza tra il topos poetico e l’episodio del dialogo tra Gesù e il buon ladrone in Lc 23. Il «ricorditi di me», infatti, sembra essere anch’esso un topos della letteratura religiosa, generato dalla coscienza che tra questo mondo e il mondo ultraterreno è stabilito un abisso, e tale distanza può sgomentare chi ancora vive nella precarietà o teme di restare intrappolato tra le maglie della morte: così, rispettivamente, è per «la Pia» che resta nel cerchio ad espiare; e così è per il buon ladrone, che immagina Cristo salire al cielo mentre lui peccatore, si sente prossimo a scendere nella geénna, ‘dimenticato’ da chi avrà in premio l’eterna felicità.

Solo tenendo conto della personificazione della pietà, a ben vedere, le terzine dantesche acquistano pienamente senso:

  «Deh, quando tu sarai tornato al mondo
e riposato de la lunga via»
seguitò ’l terzo spirito al secondo,
   « ricorditi di me, che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che ’nnanellata pria
  disposando m’avea con la sua gemma».

Il comportamento del «terzo spirito» lascia pochi dubbi: è l’unico personaggio della Commedia che si preoccupa, prima che delle sue esigenze, della salute del poeta. Ella gli raccomanda anzitutto il riposo dopo la fatica del pellegrinaggio. L’atteggiamento pietoso è seguito dall’identificazione: «la Pia».

Il fatto che Dante abbia usato l’articolo prima del nome dovrebbe indurre a riflettere. Il personaggio, attenendosi alle traballanti testimonianze storiche, non doveva essere tanto famoso da meritare una presentazione così singolare; e non vi è a tutt’oggi alcuna prova (anzi tutt’altro) che la tragedia della contessa morta in Maremma fosse “ben nota” in Toscana.

Che Dante, al v. 133, introduca la donna come ‘la pia’ per eccellenza, farebbe piuttosto pensare che egli voglia presentarla come “la più colma di pietà”. E chi potrebbe essere la pietosa per eccellenza, se non la Pietà personificata?

Se «la Pia» è davvero la Pietà, i versi finali (134-36) acquistano pieno significato e il mistero nelle due terzine sembra dissolversi: quella pietà che aveva accompagnato uno sviluppo sereno e la prosperità nella Toscana, a cominciare dalla fioritura di Siena, era venuta meno con le lotte fratricide che avevano travolto tutta la Maremma. E ciò – afferma la Pietà –«salsi colui che ’nnanellata pria | disposando m’avea con la sua gemma».

Questa accusa è rivolta al papa. All’atto della sua elezione, infatti, seguiva l’inanellamento coi riti di autoumiliazione. Sin dall’epoca costantiniana i papi si fregiavano dell’anello; e, successivamente, è attestata la presenza di almeno due anelli: l’anello piscatorio e l’anello gemmato. In merito si sa che, quando venne riesumato il corpo di Silvestro II, nel 900, egli aveva al dito un grosso anello con uno zaffiro; e lo stesso avvenne con Bonifacio VIII. È dunque certo che si può parlare di anello gemmato già dal IX secolo: con quell’anello il papa sposava la pietà e la compassione verso gli uomini e le creature. Ma l’accusa di Pia rivolta al papa è di avere dimenticato quel matrimonio spirituale con lei, «la pia» per eccellenza; a causa di quel drammatico divorzio, il successore di Pietro ha potuto mettere le mani sui territori della Maremma e, invece di dedicarsi degnamente alla missione spirituale, ha trascinato la regione in una serie di guerre cruente.

Ma a cosa può essersi ispirato Dante per la personificazione della pietà? Si è già accennato all’importanza del sodalizio con Lapo Gianni, Cavalcanti e Cino da Pistoia. Tuttavia sembra di ritrovare una connessione stretta con la Pia di Pg V proprio nei versi di Lapo Gianni: nella Ballata, poi che ti compuose amore, infatti, vi sono esattamente due terzine – come due sono le terzine dantesche della Pia – che hanno notevole affinità col personaggio femminile che nel cerchio dell’Antipurgatorio accoglie pietosamente il poeta. E infatti nella Ballata di Lapo si legge:

  Tu vedrai la nobile accoglienza
nel cerchio delle braccia ove Pietate
ripara con la gentilezza umana;
  e udirai sua dolce intelligenza:
allor conoscerai umilitate
negli atti suoi, se non parla villana;

Ecco la Pia che Dante incontra nel suo pellegrinaggio. Dante ha reinterpretato i versi di Lapo, poiché il cerchio dove ella «ripara» non è più quello delle braccia accoglienti, ma è la sezione alla base della montagna del Purgatorio. Per il resto i comportamenti corrispondono: la Pia-Pietà accoglie Dante con la «gentilezza», raccomandandogli anzitutto di riposarsi alla fine del suo viaggio. E lei è lì, proprio tra i morti di morte violenta, a riparare le colpe degli uomini ed a parlare a Dante con umiltà, anteponendo la salute del poeta ai propri desideri. Ed è lei a chiudere il canto dei morti per forza: personificazione sublime di una pietà tanto celebrata nei versi dei poeti, eppure troppo spesso uccisa nei cuori umani, resi aridi dall’odio o induriti dalla guerra.[3]


[1] Sull’impossibilità di identificazione con Pia dei Tolomei si veda anche A. M. Morace, Il tema del corpo nell’Antipurgatorio, in Purgatorio e Purgatori (atti del convegno, Sassari, 23-26 novembre 2005), a cura di G. Pissarello e G. Serpillo, Pisa, ETS, 2006, 88-91, dove si osserva fra l’altro: «Alla tradizionale identificazione osta il fatto […] che dell’appartenenza di Pia ad un casato così illustre come quello dei Tolomei non sia rimasta alcuna traccia documentaria; e che del suo matrimonio con Nello non vi sia, similmente, alcun documento, malgrado la statura del personaggio».

[2] Vn XIV 11.

[3] Ringrazio Antonio Margheriti per le preziose informazioni sugli anelli pontificali.