Antonio Soro
(University of Sassari)
25 June 2010


«...ripresi via per la piaggia diserta» (Inf  1.29)

Il drammatico pellegrinaggio di Dante comincia con la fine di un’illusione. Dopo essersi ritrovato nella «selva selvaggia», alla quale era giunto perché stordito dalle passioni, nel terrore di quel luogo privo di grazia egli scorge una speranza di salvezza: camminando arriva infatti «al pié d’un colle», le cui spalle -- con un rimando al De vita beata di Agostino colto da Richard Lansing [1]-- son vestite «già de’ raggi del pianeta». [2] La natura e la morfologia del colle non sono ben chiari: notava Domenico Consoli nell’Enciclopedia dantesca che, «per quanto nel latino collis prevalga, rispetto a mons, nella connotazione di altura modesta, o comunque meno elevata, non infrequentemente il senso del primo termine si confonde con quello del secondo». [3]

Sembra indiscutibile che il «colle» sia da porre in antitesi con il «basso loco» in cui Dante rovina, la selva del peccato; dunque esso rappresenterebbe la «“vita virtuosa” arricchita dalla grazia, premessa alla salvezza dell’anima». [4] Così, d’un tratto, il pellegrino sente tornare la speranza: la paura provata nella notte cala, perché dietro al colle già si intravede la luce di quel Sole eterno che guida gli uomini per direzioni o sentieri diritti. [5] A quel punto Dante, che già avverte di trovarsi dinanzi ad una “traversata” fuori dal comune, ai vv. 22-27 esprime, con una similitudine marinaresca, il sollievo che prova quando, voltandosi, osserva da lontano il luogo ostile attraversato: egli si sente come un naufrago stanco e affannato che, guadagnata la riva, si volta verso il mare pericoloso e ostile a cui è scampato.

Quel mare si presenta come un simbolo veterotestamentario, simile alle acque del Mar Rosso che travolsero il Faraone e il suo esercito di empi, consentendo però l’attraversamento agli eletti. Una volta rincuorato dalla speranza di una salvezza, Dante, dopo aver recuperato un po’ di forze, prosegue in direzione del «pianeta», [6] per andare incontro al quale è necessario risalire il «colle». La terzina che segue merita una riflessione, poiché essa ha la funzione di congiungere due momenti antitetici: quello della speranza e quello, invece, della fine di una “vera” illusione, che si concretizza nel passo sbarrato dalle fiere. Ma di che illusione si tratta? Certamente, sul piano morale, si ha a che fare con la convinzione di poter uscire dalla condizione di peccato senza un cammino penitenziale ed una analisi viscerale delle basse tendenze dell’anima, simboleggiate dai gironi dell’abisso infernale.

Sembra però che Dante sia vittima di un incanto assai più coinvolgente, di un miraggio capace di ingannare anche i suoi sensi; un sogno ad occhi aperti che rende il suo risveglio al v. 31 ancor più tragico di quel che ad un primo esame può apparire. Vediamo perché. Ai vv. 29-30 il poeta ci fa partecipi della sua illusione: dopo essersi ristorato e rinfrancato, riprende «via per la piaggia diserta, | sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso». I commentatori, in questo caso, traducono “piaggia” risalendo al latino medievale plagia, che significava “pendio”; «subordinatamente “costa”, “spiaggia” (plagia maris)».[7] Nello specifico, la traduzione adottata (Barbi 1934.1) è di «tratto in pendio tra la valle e la vera e propria erta del colle», [8] anche sulla scia di Cv 3.3.4 («ne le piagge e dappiè monti»), Rime 100, 46 («morti li fioretti per le piagge»), 61, 4 («belle piagge volgere e imboccare»), Inf 2.62 («ne la diserta piaggia è impedito»).

Nel significato di “terreno in pendenza” si trova invece in Inf 7.108 («...le maligne piagge grige»), ed anche in Pg 4.35 («Poi che noi fummo in su l’orlo suppremo | de l’alta ripa, a la scoperta piaggia: l’espressione designa la costa del monte, non più scoscesa come l’alta ripa, anche se in pendio, e aperta alla vista dei due poeti, a differenza della via incassata nella roccia che essi avevano prima percorso»).[9] Ma c’è un terzo significato del termine, ed è quello di «spiaggia»: esso compare in Inf 3.92 («per altra riva verrai a piaggia»), dove Blasucci [10] nota l’incertezza degli interpreti circa l’identificazione della piaggia: per alcuni si riferirebbe alla foce del Tevere dove si raccoglievano le anime dirette al purgatorio; per altri alla spiaggia stessa del purgatorio.

Ora, quest’ultima traduzione sembrerebbe la meno adatta ad Inf 1.29. Nessun mare appare effettivamente presente nel canto. Di «pelago» si parla però al v. 23, nella similitudine già esaminata che associa lo scampato pericolo del poeta alla riva guadagnata da un naufrago. Sembrerebbe, in effetti, che «piaggia» nella traduzione di «riva» sia capace di prolungare la similitudine marinara fino al v. 30. In tal senso Dante apparirebbe come un naufrago che, riprese le forze, comincia finalmente a guadagnare la riva sconosciuta nella totale solitudine, in modo che « . . . ’l piè fermo sempre era ’l più basso»: [11] una similitudine che, sottolineavano già i primi commentatori, «rappresenterebbe . . . l’affetto alle cose terrene che ancora grava in Dante» (A.M. Chiavacci Leonardi, 1991-97).

E’ necessario ora confrontare queste terzine con quelle di apertura del Purgatorio, perché diversi elementi sembrano accomunarle. Nella seconda cantica Dante si appresta a scalare una montagna (3.6), quella che scorse a distanza Ulisse, «alta tanto | quanto veduta non ne avea alcuna». [12] Nel primo canto infernale rimane l’ambiguità semantica di «colle», sospeso tra collis e mons. Dante inizia a muoversi in tale canto attraversando la «piaggia diserta», e una «diserta piaggia» troviamo in 2.62; ma la «piaggia» del mare è quella dove l’angelo fa sbarcare le anime in Purg. 2.50, ed anche essa è deserta, tant’è che Dante in Purg. 1.130 parla di «lito diserto», e poco prima scrive: «noi andavam per lo solingo piano» (1.118). Si ritrovano dunque elementi comuni ed affinità lessicali difficili da ignorare.

L’impressione generale, insomma, è che Dante abbia voluto creare due scenari tra loro piuttosto simili; rimane da chiedersi perché. Una risposta forse la possono fornire ancora le terzine della similitudine del naufrago, dove si parla di un’acqua (Inf 1.26: «passo») «che non lasciò già mai persona viva» (v. 27); la similitudine, è il caso di evidenziarlo, ricorre anche nelle altre due cantiche, poiché si legge in Pg 1.130-32: «Venimmo poi in sul lito diserto,|che mai non vide navicar sue acque | omo, che di tornar sia poscia esperto »; in Pd 1.7, invece, Dante giubila: «L’acqua ch’ io prendo già mai non si corse».  Quale significato attribuire a nessi lessicali, tematici e “scenografici” tra loro corrispondenti agli inizi delle cantiche?

Torniamo alla «piaggia diserta», di Inf 1.29, poiché il sostantivo, in effetti, mostra una duplicità di significato che Dante parrebbe aver ricercato. Il duplice significato, come «pendio» o come «spiaggia», collocato ai piedi del «colle» -- che può a sua volta intendersi come «collina» o come «montagna» -- conferisce alle prime terzine un’atmosfera di ambiguità, con una ambientazione, per così dire, da sogno: un sogno destinato a terminare bruscamente con l’apparizione delle tre fiere; della lonza, che frena Dante «quasi al cominciar dell’erta», cioè all’inizio di ogni possibile cammino di redenzione; del leone e infine della lupa, che lo fa rovinare «in basso loco». Il peccatore si illude facilmente di poter ritornare alla santità e alla purezza senza passare per l’umiliazione. Ma «dagli esempi di Cristo devi salire alla sua divinità. Egli si è fatto tuo modello umiliandosi: per questo coloro che non volevano iniziare la loro ascesa partendo dalla valle del pianto furono da lui ricacciati in basso. Volevano ascendere troppo in fretta, pensavano agli onori delle altezze senza pensare alla via dell'umiltà». [13]

Di tale illusione Dante ci fa partecipi, dipingendoci una scena con vaghe somiglianze con la spiaggia ai piedi del monte del purgatorio. I versi 28-30 fanno perciò parte della similitudine sul naufragio espressa nelle due terzine precedenti. Il naufrago, ingannato dal suo orgoglio, sottomesso dai vizi, crede per un attimo di essere giunto ai piedi del monte dell’espiazione, e si appresta a cominciare la salita. Ma le sue debolezze faranno presto a spazzare via il sogno: la spiaggia è in realtà solo una piaggia, il mons è solamente un collis e, dunque, quello non è il purgatorio, ma è purtroppo la valle che fa precipitare le anime verso la perdizione; la via dell’inferno si presenta piena di incanti, il male si traveste da salvezza per perdere le anime.  

Appare  dunque necessario, per cogliere appieno il miraggio di cui è vittima Dante, porre attenzione all’incertezza semantica dei versi 22-30, i quali risultano far parte di un’unica similitudine: in essi, il termine «piaggia» di 1.29 andrebbe considerato nel suo duplice ed irriducibile significato, quello di «pendio» e quello di «spiaggia».


[1] Inferno 1.16-17: «E vidi le sue spalle...vestite», «Electronic Bulletin of the Dante Society of America», december 10 2007, www.dantesociety.org/publications.html | EBDSA |Inferno.

[2] 1.17.

[3] 2.51.

[4] Ibidem.

[5] Così Matteo quando riprende Isaia: «parate viam Domini, rectas facite semitas eius» (3:3).

[6] 5.17.

[7] L. Blasucci in Eneide, 4.473.

[8] Ibidem.

[9] Ibidem.

[10] Ivi, 474.

[11] 5.30.

[12] Inf 26.134-35.

[13] Agostino, Enarr. in Ps. 119:1 in Nicola Fosca (2003-06), comm. Inf 1.31-33.