Gino Casagrande
(University of Wisconsin, Emeritus)
12 February 2013


"Fresco smeraldo in l'ora che si fiacca" (Purg. 7.75) e l'interpretazione di André Pézard

La voce “smeraldo” occorre tre volte nella Commedia, e solamente nel Purgatorio. Nel 31.116 è metafora per indicare gli occhi di Beatrice («li smeraldi» = occhi lucenti come smeraldi – Landino); nel 29.125, in una perifrasi, è simbolo della speranza; e finalmente nel luogo che qui c’interessa il termine è usato in senso proprio e indica la pietra preziosa.

Oro, argento fine, cocco e biacca
indico legno, lucido sereno [1]
fresco smeraldo in l’ora che si fiacca,
(Purg. 7.73-75)

Una breve rassegna di alcuni chiosatori danteschi attraverso i secoli mostra che il verbo fiaccare in questa occorrenza vale nel senso di ‘rompere’, ‘spezzare’, ‘spaccare’ senza altre qualifiche. Per il Buti e qualch’altro significa «Fresco smiraldo; cioè spiccato di nuovo dall'altra pietra». Per il Benvenuto prende il valore di «lapis pretiosus viridis coloris, maxime cum frangitur». In genere i moderni seguono gli antichi («lo smeraldo vivo e fresco, come appare al momento in cui si spacca» – Chiavacci Leonardi), benché qualcuno, come il Trucchi, preferisca interpretare il «fiacca» nel senso di sfaccetta,[2] il che  ci orienta verso i tagliatori di pietre preziose. Tornerò su questo punto nella conclusione.

L’interpretazione del Pézard

Quasi un cinquantennio fa André Pézard, nella sua grande traduzione francese dell’opera dantesca, rese il v. 75 di Purg. 7 come «fraîche émeraude en vert vin détrempée» e quindi in un’appendice diede le ragioni di questa sua interpretazione del tutto nuova. [3] L’insigne dantista francese, adducendo un numero di autori classici (Plinio, Solino, Isidoro di Siviglia) e medievali (Marbodo, Vincenzo di Beauvais, Dino Compagni) intese il verbo dantesco nel senso di macerare. Si tratterebbe di mettere a bagno lo smeraldo nel vino o nell’olio d’oliva per un periodo di tempo per renderlo più verde. Questa interpretazione fu subito accolta da Francesco Mazzoni [4] e di qui entrò nel commento di Bosco-Reggio (1979), in quello di Pasquini-Quaglio (1982), di Nicola Fosca (2003-2006), [5] e fu anche ben ricevuta da Ignazio Baldelli. [6] Ma una parte delle ragioni addotte dal Pézard – e quindi una parte della resa in francese del v. 75 – non venne accolta dal Mazzoni poiché «abbandona il testo vulgato» cambiando l’avverbio di tempo «in l’ora» in un sostantivo denominato lòra – che poi nella traduzione in francese diventa “vert vin”. E quindi il verso verrebbe ad essere equivalente più o meno a: fresco smeraldo che si macera nella lòra. [7]

Fiaccare

Il Pézard, iniziando il suo esame sul verbo ‘fiaccare’ afferma che gli antichi lapidari, dall’età classica fino ai tempi di Dante, c’insegnano che il verde dello smeraldo diviene più profondo se la pietra preziosa viene trattata con l’olio d’oliva verde e anche con il vino puro, e si riferisce a un passo «incerto» di Plinio. [8]  Il Pézard chiama il passo ‘incerto’ perché nella nuova edizione teubneriana di Plinio della fine dell’Ottocento, il riferimento al vino scompare, e rimane solo l’olio: quidam tamen virides nasci videntur, quoniam oleo meliores fiunt (Naturalis historia, XXXVII 71). Ovviamente, questa discrepanza tra i codicinon inficia la possibile validità dell’osservazione del dantista francese. Il problema è un altro, e va precisato in questi termini: le citazioni addotte dal Pézard – per ovvie ragioni di spazio – sono estremamente esigue e quindi tagliate dal loro contesto, per cui è praticamente impossibile per il lettore della sua Appendice 8 (Recettes de vieux lapidaires) esprimere un giudizio critico. Quindi, a mio avviso, è assolutamente indispensabile rimettere questi spezzoni nella loro originale coesione sintattica, perché solo così se ne potrà capire la coerenza semantica. Ma, credo, basterà soffermarsi solamente sugli autori classici apportati dal Pézard per comprendere il discorso che qui si cerca di svolgere.

Plinio, Solino e Isidoro

Plinio parla di dodici varietà di smeraldi che corrispondono alle dodici località da lui conosciute in cui vi erano delle miniere della pietra preziosa, e vi dedica ben tre capitoletti, tra i quali il xviii che tratta dei vitiosi, cioè degli smeraldi che hanno dei difetti più o meno gravi, e ne dà un elenco; tra cui vi sono gli smeraldi dei Medi che hanno molti svariati difetti. Ed è proprio in questo unico contesto che Plinio menziona l’uso dell’olio. La sua prosa suona in questo modo: «Queste pietre sono variegate ed hanno immagini di vari oggetti naturali, come ad esempio figure di papaveri, di uccelli, di cuccioli vari, di piume. Tutti appaiono naturalmente di colore verde dopo che sono stati migliorati con l’applicazione di olio (quidam tamen virides nasci videntur, quoniam oleo meliores fiunt). [9] O, volendo, possiamo usare la lezione del passo incerto con il “vino” preferita dal Pézard, come effettivamente risulta da solo due codici antichi: Qui [gli smeraldi dei Medi] non omnino virides nascuntur, vino et oleo meliores fiunt. Per il nostro precipuo scopo nulla cambia, perché l’uso dell’olio o del vino è inteso a migliorare i difetti naturali dei vitiosi e in particolare di questo tipo di smeraldi e, ovviamente, non di quelli che omnino virides nascuntur poiché non ne hanno bisogno.

Se poi andiamo a reintegrare i frammenti che riguardano Solino e quelli che si riferiscono a Isidoro ci accorgiamo subito che i due autori concordano con quello che si è detto sopra di Plinio. Trattando dell’olio,[10] il Pézard per quanto concerne Solino dice semplicemente «viridi proficiunt oleo (XV 23-27)», ma la frase nel contesto completo legge: vitiosi eorum intrinsecus quasdam sordes habent, vel plumbo vel capillamentis vel etiam sali similes. Laudantur austeri, sed mero et viridi proficiunt oleo, quamvis natura imbuantur.[11] Per quanto riguarda poi Isidoro, il critico francese – sempre a proposito dell’olio – ci offre solamente un semplice rinvio, in questo modo: (Etym. XVI 7). Ma se andiamo a fare un controllo, ci rendiamo conto che Isidoro si riferisce qui solamente agli smeraldi ‘inquinati’: Reliqui  [cioè, quelli che rimangono dopo i tre migliori esemplari di smeraldi] in metallis aerariis inveniuntur, sed vitiosi; nam aut aeri, aut plumbo, vel capillamentis, vel sali similes notas habent. Smaragdi autem mero et viridi proficiunt oleo, quamvis natura imbuantur.[12] Come si vede, sia nel testo di Solino come in quello di Isidoro l’enfasi è sugli smeraldi vitiosi che tuttavia potranno essere migliorati con l’uso del vino e dell’olio, per quanto macchiati o inquinati siano dalla natura.[13]

I tre autori quindi convengono interamente su questo punto, benché la seconda versione di Plinio – Qui non omnino virides nascuntur, vino et oleo meliores fiunt – sembra stabilire un chiaro contrasto tra gli smeraldi che per natura sono interamente verdi e quelli che invece ‘nascono’ con ‘vizi’ naturali ed hanno quindi bisogno di essere abbelliti con un trattamento a base di vino e di olio.
   

Conclusione

Come è noto, nella Commedia il verbo ‘fiaccare’ ha luogo quattro volte: tre nell’Inferno e questa del Purgatorio. A me sembra che l’unica eccezione al significato di ‘rompere’ che si dà a questo verbo sia l’occorrenza, alla prima persona, di Inf. 6.54: «per la dannosa colpa de la gola, / come tu vedi, a la pioggia mi fiacco». È Ciacco che parla, macerato com’è dalla «greve» pioggia. Credo che in questo luogo l’interpretazione del Pézard («macérer, détremper»)[14] sia quella giusta; anche perché solo così si riesce a capire il contrapasso dei golosi.[15]

A mio modo di vedere, il verbo dantesco nelle rimanenti occorrenze va inteso nel senso generale di ‘rompere’, ‘spezzare’. Per cui ritengo che sia opportuno restituire all’espressione «si fiacca» di cui stiamo trattando il valore tràdito per secoli di ‘spezzare’, ‘rompere’. 

Terminerò dicendo che per esprimere il verde tra i colori indescrivibili della valletta dei principi – e sono indescrivibili appunto perché quelli descritti da Dante sono tutti vinti da quelli dipinti ivi dalla natura, «come dal suo maggior è vinto il meno» – il Poeta fiorentino non avrebbe mai scelto un tipo di smeraldo difettoso per natura (natura imbuatur) il cui colore ha bisogno di essere rinverdito dal vino o dall’olio che sia. Al contrario, egli avrebbe puntato sul migliore smeraldo che si trovi al mondo – come in realtà fece. Non solo, ma egli cercò anche di indicare il non plus ultra della sua verdezza che appare proprio al momento in cui «si fiacca», cioè nel momento in cui si taglia o, per dirla con il Trucchi, nell’ora in cui si «sfaccetta». E proprio questo può essere una risposta alla domanda del Pézard: «pourquoi relever le moment précis où a lieu la cassure?». Benché Dante non abbia specificato la ragione del «fiaccare», è evidente che il Trucchi l’intende ‘ad opera dell’artefice’, e quindi ci fa entrare nelle botteghe fiorentine dei tagliatori di pietre preziose. Forse anche Dante vi sarà entrato qualche volta, e magari avrà potuto constatare di persona quello che aveva letto, se non direttamente in Plinio, certamente in Isidoro: Smaragdus a nimia viriditate vocatus … Nullis enim gemmis vel herbis maior huic austeritas[16] est; nam herbas virentes frondesque exsuperat, inficiens circa se viriditate repercussum aerem. Sculpentibus quoque gemmas nulla gratior oculorum refectio est.[17]


[1]   Per l’interpretazione di questo verso cfr. Gino Casagrande, “Parole di Dante: ‘indico legno.’” Lingua Nostra 62 (1981): 98-102.

[2] Ernesto Trucchi, Esposizione della “Divina Commedia” (Milan: Toffaloni, 1936), vol. 2, 120.

[3] Oeuvres complètes de Dante; traduction et commentaires par André Pézard (Paris: Gallimard, 1965). Appendice 8: Recettes des vieux lapidaires, ivi, 1688-1690.

[4] Dante Alighieri, La Divina Commedia. Purgatorio: con i commenti di Tommaso Casini-Silvio Adrasto Barbi, e Attilio Momigliano. Introduzione e aggiornamento bibliografico-critico di Francesco Mazzoni (Florence: Sansoni, 1973), 175, A75.

[5] Leggilo online nel sito http://dante.dartmouth.edu/  alla voce ‘fiacca’ (Purg. 7.73-78).

[6] Ignazio Baldelli, “I Morti di morte violenta: Dante e Sordello.” Dante Studies 115 (1997): 111-183 (qui 164-165).

[7] La lora corrisponde al nostro ‘acquerello”, bevanda che si ottiene mescolando acqua con le vinacce.

[8] “Or les anciens lapidaires […] enseignent que le vert de l’émeraude devient plus profond si on le laisse quelque temps dans un bain d’huile, verdale de préférence […]. L’huile n’est pas le seul bain salutaire à l’émeraude. Pline attribue la même vertu au vin pur – au vin blanc de préférence, semble-t-il: le texte de NH, XXXVII 71 est incertain, même …” (Ivi). Il passo incerto è il seguente: Qui [cioè gli smeraldi dei Medi] non omnino virides nascuntur, vino et oleo meliores fiunt, neque est aliorum magnitudo amplior.

[9] Cfr. Naturalis historia, XXXVII xviii 4).

[10] Cfr. Oeuvres, cit., 1689.

[11] C. Iulii Solini, Collectanea rerum memorabilium, rec. Th. Mommsen (Berolini [Berlin]: in aedibus F. Nicoli, 1864), 98.18

[12] Etym. XVI vii 2.

[13] In questo contesto il verbo imbuere va inteso in malo, come ci dice Uguccione: «et notat quod imbuo et combuo magis proprie accipiuntur in malo, quasi inquino» (s. v. buo, -is).

[14] André Pézard, “Le chant VI de l'Enfer: Ciacco et Florence.” Bulletin de la Société d'études dantesques du Centre universitaire méditerranéen 12 (1963): 7-34.

[15] Cfr. Gino Casagrande, “Per la dannosa colpa de la gola.” Studi Danteschi 62 (1990): 39-53.

[16] Qui austeritas  ha il significato di ‘intensità di colore’.

[17] Etym. XVI vii. Cfr. Plinio, Naturalis historia, XXXVII xvi 62-63.